Insomma, non fa piacere ricordare che i pratesi di allora erano molto più simili ai cinesi di oggi, nelle dinamiche socioeconomiche, di quanto non vogliano ammettere. Soprattutto, non fa piacere ricordare che gran parte della ricchezza pratese, e di tanti pochi pratesi, è stata costruita sull'illegalità e sullo sfruttamento dei pratesi prima, dei "marrocchini" poi, e oggi dall'affitto dei capannoni industriali lasciati vuoti grazie alla "delocalizzazione".
E allora si capisce anche la stizza (ben mascherata, ma fino ad un certo punto) con la quale l'Unione Industriali risponde alla presentazione del libro "Ombre cinesi?" avvenuta qualche giorno fa, parlando di "gravi imprecisioni" o di "affermazioni non suffragate da dati qualitativamente solidi" - che, per un lavoro scientifico, vuol dire una solenne stroncatura.
Noi vogliamo un po' calcare la mano, e riprendere quanto diceva don Milani nelle sue "Esperienze Pastorali" (1957), a proposito dei tessitori di Prato: "Gente che non esiste, eppure vive e soffre e si ammala e mangia e prende moglie e fa figlioli e s'infortuna e tutto questo senza assicurazioni, senza contratto, senza difesa. In una parola: schiavi come ai tempi di Nerone, gente senza diritti." C'è bisogno di altro?
MV
da il Tirreno del 06/04/09
L’Unione industriale dice la sua sul volume presentato a Prato «Bene la parte sociologica peggio quella economica»
PRATO. E’ interessante per gli industriali la lettura del libro “Ombre cinesi”. «Qualche grave imprecisione o affermazione non suffragata - per quanto se ne sa - da dati qualitativamente solidi, almeno per quanto riguarda l’economia pratese; un approccio coerente con il ruolo e le competenze degli autori e orientato essenzialmente alla comprensione dei fenomeni sociali più che a quelli economici». «Chiavi di lettura - è ancora opinione dell’Unione industriale pratese - anch’esse in linea con il profilo degli autori e quindi non direttamente centrate sugli effetti della presenza cinese a Prato e in Italia: questi, dal punto di vista dell’Unione e della natura del suo interesse per la materia, i limiti del libro, per il resto ricco di analisi e di spunti di riflessione importanti».
Interessanti le considerazioni sulla sostanziale “volontarietà” della condizione in cui operano i lavoratori cinesi: una “volontarietà” che naturalmente non limita in nulla la natura illegale di rapporti di lavoro all’insegna dello sfruttamento. «Non è chiara poi la ragione del richiamo ad epoche in cui anche in Italia e a Prato le condizioni di lavoro erano ben diverse e peggiori di quelle attuali. Una simile notazione è comprensibile se orientata a non dare dei cinesi un’immagine troppo lontana da quella degli italiani e potenzialmente foriera di derive razziste. Condivisibile l’affermazione secondo cui la repressione non deve avere una connotazione etnica fine a se stessa ma essere inserita in un quadro di provvedimenti più complessivi. Tuttavia è necessario che questa ovvia considerazione, che rimanda a livelli di intervento più alti e complessi delle “semplici” operazioni di vigilanza e sanzione, non divenga un alibi per il perpetuarsi dell’immobilismo rispetto a comportamenti comunque non accettabili per la legge italiana».
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