Perequazione, indennità d’esproprio, rendita: le tre parole che strozzano la buona urbanistica. Ragioniamo sui loro significati nell’Italia di oggi: è il solo modo per comprendere come allentare il cappio.
Perequazione. L’esigenza di una equità nelle scelte della pianificazione del territorio è da tempo presente. Ma equità tra chi e per che cosa? Non in termini di giustizia sociale, non tra gli abitanti, cittadini o aspiranti tali: tra i proprietari di suolo urbano. Nella versione nobile voleva significare “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani” (Aldo Moro, 1964). Ma era già stata condotta al fallimento la proposta di legge del ministro Fiorentino Sullo, e dopo i crolli e le alluvioni del 1966 si tornò a una perequazione parziale dei valori immobiliari, già in atto con la legge urbanistica del 1942: si decise che negli strumenti urbanistici attuativi, a partire dai piani di lottizzazione (legge 765/1967), tutti i proprietari inclusi dovessero ripartire tra loro, equamente, oneri e vantaggi dell’urbanizzazione ed edificazione.
Poi , la svolta. Si cominciò a parlarne negli anni che prepararono il declino dell’urbanistica italiana e videro esplodere quella che poi fu battezzata Tangentopoli. I piani urbanistici venivano redatti, adottati, approvati ma poi non erano attuati: in molte parti d’Italia (non in tutte però) la città s’ingrandiva e trasformava secondo altri disordinati disegni, sotto la spinta di altri interessi: quelli del mercato immobiliare (che gli incorreggibili continuavano a chiamare “speculazione urbanistica”). Alcuni nodi oggettivi c’erano: la disciplina del diritto sui suoli urbani non era stata riformata come la Corte costituzionale avrebbe preteso, e la situazione normativa era molto pasticciata; le amministrazioni pubbliche, salvo eccezioni, non erano attrezzate per pianificare con la tempestività che la velocità delle trasformazioni richiedeva.
Gli urbanisti e gli amministratori cercarono nuove strade. Si manifestò un accordo largo sulla articolazione dei piani in due componenti: una strutturale e strategica e una operativa. Sui contenuti dell’una e dell’altra componente c’era confusione, l’introduzione di quella distinzione nelle legislazioni regionali e nelle prassi di pianificazione la aumentò. Una “corrente di pensiero”, che aveva preso la maggioranza nell’Istituto nazionale di urbanistica, propose una nuova prassi per raggiungere la “indifferenza dei proprietari alle previsioni dei piani” e soprattutto per evitare di espropriare le aree necessarie per gli spazi pubblici. Strano che la proposta venisse proprio da quella Emilia Romagna nella quale era chiaro da tempo che l’espansione urbana era terminata, e dove si era riusciti a superare brillantemente il traguardo degli standard urbanistici non solo in termini quantitativi (30 mq ad abitante, invece dei 18 ex lege nazionale), ma anche acquisendo praticamente tutte le aree individuate. E strano che la proposta venisse avanzata proprio mentre in Francia si stava abbandonando l’analogo sistema dell’attribuzione ai suoli di un plafond de densitè.
Ecco la proposta dell’INU. Spalmiamo una cubatura (tot metri cubi di edifici per ogni mq di terreno) su tutta l’area che vogliamo urbanizzare: volumi teorici ugualmente spalmati sulle aree sulle quali sorgeranno quartieri e lottizzazioni, fabbriche, servizi e spazi pubblici urbani e territoriali. Se ci serve un’area per fare un parco o una scuola consentiamo al proprietario di tenersi stretti i suoi volumi teorici spostandoli su un altro suolo, e ci facciamo dare gratis l’area che ci serve per gli usi pubblici. Naturalmente, più estendiamo le aree urbanizzabili più aree per servizi riusciamo a ottenere. Quindi dimensioniamo il piano non sulla base dei fabbisogni effettivi, ma inseguendo le spinte della proprietà immobiliare: in quel mercato nel quale (come gli economisti liberali seri hanno dimostrato) la concorrenza non c’è.
La questione è strettamente legata a un’altra: quella dei cosiddetti “diritti edificatori”: quella bizzarra teoria secondo la quale se un PRG ha attribuito una capacità edificatoria a un’area questo “regalo” non può essere tolto al proprietario senza indennizzarlo adeguatamente. Ma di questo termine abbiamo già scritto qui altre volte, e rinviamo ad altri articoli.
L’esempio eccellente (si fa per dire) di questa teoria e di questa prassi è stato il nuovo PRG di Roma, che ha confermato e aggravato il consumo di suolo autorizzato rendendo edificabili ulteriori 14mila ettari dell’Agro romano. Sindaci pro tempore Rutelli e Veltroni, consulente generale il presidente onorario dell’INU, Giuseppe Campos Venuti.
Indennità d’esproprio. E’ indubbiamente un nodo irrisolto. Se ne è discusso ampiamente, a partire dagli anni 60 del secolo scorso. La Corte costituzionale è intervenuta più volte, criticando norme che consentivano ad alcuni di guadagnare grazie alle scelte del piano, e ad altri di non guadagnare perché remunerati, nel caso di espropriazione, da un’indennità d’esproprio di entità molto più modesta. La Corte indicò anche una delle strade percorribili per sciogliere il nodo: decida il legislatore che il valore che deve essere riconosciuto al proprietario non deve compensare l’edificabilità, e iil problema è risolto. Il Parlamento tentò, ma la forza degli interessi contrari prevalse e il principio fu introdotto (con la legge Bucalossi del 1977) ma in modo debole, contraddittorio e, per così dire, sterilizzato.
Da allora è stato un declino continuo. La proprietà immobiliare, invece di essere ricondotta a una sua “funzione sociale” (come la Costituzione, articolo 42, vorrebbe), è stata assunta come “motore dello sviluppo”: più il suo valore economico aumenta, più l’economia va. Guai a ridurre il prezzo degli espropri: alla proprietà immobiliare deve essere riconosciuto tutto il valore che il “mercato” (quel mercato) gli riconosce.
Ecco allora che i comuni non espropriano più. Adesso hanno un alibi per preferire di spendere in opere inutili ma di prestigio (eccelle l’architetto Calatrava con le sue opere) e nell’allestimento di eventi che mettano in competizione una città contro un'altra: queste sono considerate le spese indispensabili, per le quali si può rinunciare a realizzare asili e parchi, o espropriare aree in cui localizzare un’edilizia abitativa depurata da una parte almeno della rendita.
Rendita. Eccoci alla terza parola, al terzo nodo che strozza la buona urbanistica. Che cos’è la rendita? Secondo l’economia classica, quella fondata su un’analisi del ruolo sociale e umano dell’economia, la rendita è una delle tre componenti del reddito: il salario, che corrisponde all’impiego, da parte del lavoratore, del suo tempo di lavoro; il profitto, che secondo alcuni è l’appropriazione di una parte del valore creato dal lavoro, secondo altri la remunerazione corrispondente al ruolo imprenditivo; la rendita, che è la quota del reddito della quale si appropria il proprietario di un bene necessario alla produzione, per il solo privilegio di esserne proprietario. Ora è chiaro che mentre al salario e al profitto corrisponde un preciso ruolo sociale, finalizzato alla produzione di merci, anche all’interno di una logica capitalistica alla rendita corrisponde un ruolo meramente parassitario.
Negli anni 60 e 70 questa verità era chiara alla parte stragrande dello schieramento politico, nel parlamento e nelle amministrazioni locali, e alla cultura specializzata. Era la tesi comune alla sinistra, ma non solo a questa: lo testimoniano dibattiti, tentativi legislativi ed esperienze amministrative nell’area del “centrismo” a guida DC. Perfino gli esponenti dell’industria moderna, del “capitalismo avanzato”, se ne convinsero, e compresero (1970-71) che se non si fosse contenuta la rendita (in particolare quella urbana) le condizioni di vita dei lavoratori (affitto, trasporti, servizi) sarebbero divenute più costose, e quindi la pressione sindacale sarebbe cresciuta e avrebbe costretto a cedere al salario quote di profitto. Oggi no: la rendita immobiliare, componente essenziale della proprietà immobiliare, è considerata il “motore dello sviluppo”.
Che fare? Eccoci all’ultimo passaggio di questo lungo eddytoriale, che compensa del lungo silenzio. Molti (i cittadini che si mobilitano per una città migliore, i lavoratori che chiedono abitazioni meglio accessibili, meno costose, più decentemente servite, i gruppi di abitanti minacciati dallo sfratto per fine contratto o per “rigenerazione urbana”, e i loro comitati, associazioni, sindacati), quando ascoltano questa analisi, pongono questa domanda: che fare oggi? Raramente trovano risposte nel mondo degli esperti, che non siano quelle comprese negli slogan perequazione allargata (definiamola così per distinguerla da quella tradizionale, quella dei “comparti” della legge del 1942 e dei “piani di lottizzazione” della legge del 1967), rendita motore dello sviluppo, vocazione edificatoria del suolo. Proviamo a dare qualche risposta. Non sarà organica, ma tenteremo di indicare alcune possibili strade.
Il primo passo da compiere è assumere consapevolezza. Bisogna convincersi che la perequazione, nei termini in cui viene proposta e praticata, è un’imbecillità perniciosa. É un’imbecillità perché, seppure poteva avere un senso nell’età dell’espansione, non ne ha certamente nessuno oggi. É un’imbecillità perché non tiene conto che – come gli eventi recentissimi dimostrano – l’attività immobiliare non è più il motore di nessuno “sviluppo”, neppure il meno sostenibile: è solo un fattore di crisi. Ed è perniciosa perché non comporta altro che l’espansione generalizzata delle “capacità edificatorie”, comunque travestite. Predicare e praticare la perequazione allargata significa soltanto incentivare la piaga italiana dell’aberrante consumo di suolo. Criticare il consumo di suolo e continuare a difendere la perequazione è segno di ipocrisia, oppure testimonianza di schizofrenia. E infine, parlare di equità solo a proposito dei valori immobiliari e utilizzare la perequazione come strumento della pianificazione significa perpetuare ed accrescere la profonda iniquità nell’uso della città-
Ugualmente, è pernicioso continuare ad adoperare l’espressione “diritti edificatori” senza ricordare che questi vengono attribuito solo con l’atto abilitativo: non dalle decisioni del piano urbanistico generale, e neppure da quello attuativo. É sempre possibile revocare una decisione urbanistica se questa non ha ancora ottenuto effetti concreti, se non ha comportato spese per opere legittimamente e documentatamente sostenute. Il territorio non ha alcuna “vocazione edificatoria”, ove operatori e amministratori rozzi o complici della speculazione immobiliare non gliela concedano.
Resta il problema della rendita immobiliare. È un problema che richiede attenzione e, soprattutto, determinato impegno politico. Anche qui, la premessa necessaria è che si restauri il principio, mai smentito dalla teoria e continuamente confermato dalla pratica, che la rendita immobiliare è una componente parassitaria della vita economica della società: è un mero pedaggio che si paga al privilegio proprietario. La rendita immobiliare va ridotta quanto è possibile farlo, e va “tosata” a favore del potere pubblico, che è quello che la determina: è quello che, con le scelte dei piani e gli investimenti dell’urbanizzazione, storica e attuale, è produttore delle differenze e delle convenienze che la determinano.
Ridurre la rendita si può, anche con i piani urbanistici. A Napoli, quando la giunta del primo Bassolino varò con De Lucia i primi atti della nuova pianificazione (la variante di salvaguardia e quella di Bagnoli), accaddero due serie di eventi. Le pendici che dal Vomero scendono verso la città greco-romana si coprirono di vigne e orti: terreni in attesa di edificazione, restituiti in modo irrevocabile alla naturalità, ritrovarono una funzione (e un valore) di suolo agricolo. E l’IRI, proprietaria dell’area Italsider di Bagnoli, ridusse nei suoi libri contabili il valore del suolo, che aveva perduto l’edificabilità prevista.
Si può poi, e si deve, battersi per ottenere una definizione legislativa che definisca che cosa fa parte del “valore venale” dei suoli in qualsiasi negozio nel quale intervenga la pubblica amministrazione. La determinazione del “valore venale” a cui si commisura l’indennità espropriativa non è misurato dal mercato, ma dalle stime che ne fanno le strutture a ciò adibite. Non sembra affatto insensato (ed è invece del tutto coerente con le indicazioni che più volte la Corte costituzionale ha suggerito) precisare che l’utilizzabilità di tipo urbano di un suolo non va considerata tra i parametri che determinano il “valore venale” dell’area: né in caso di acquisizione pubblica, né di imposizione fiscale o tributaria.
É difficile ottenere una simile definizione normativa? Probabilmente si, ma se nessuno la propone con forza, se comuni, province, regioni, partiti e raggruppamenti politici, organi di formazione dell’opinione pubblica, università e associazioni culturali non si muovono, non propongono, non sollevano il problema (e quindi, ripetiamolo ancora una volta, non mostrano di aver assunto consapevolezza del problema) nulla potrà accadere. E allora sarà inutile meravigliarsi e lamentarsi e piangere quando l’ennesima alluvione avrà distrutto case e campi, avrà travolto persone e automobili, quando le città saranno diventate sempre più invivibili, il territorio e le sue urbanizzazioni sempre più inefficaci ai fini di una vita dignitosa, le abitazioni sempre più care, gli abitati più poveri espulsi sempre più lontano, gli spazi pubblici sempre più negletti.
E nel frattempo? Si ricominci con la pianificazione prudente. Si riparta dal calcolo dei fabbisogni reali, certi nelle esigenze e nelle disponibilità a operare, per quanto riguarda le abitazioni necessarie, e le nuove attività realmente utili per la produzione (di commercio e di “non luoghi” ce ne sono gìà troppi, meglio lasciarne deperire i sacrari e far rivivere il commercio nelle città). Si sottraggano dai fabbisogni calcolati di nuovi volumi e superfici quelli oggi inutilizzati, e si ricominci da quelli, dalla loro trasformazione e riutilizzazione. Si misuri con parsimonia quali e quante nuove aree sono necessarie per nuove attrezzature, per raggiungere standard ragionevoli, e si vincolino e acquisiscano quando si hanno le risorse per farlo. Si ripristini l’impegno (legislativo e amministrativo) di far pagare a ogni nuovo intervento gli oneri necessari per le opere di urbanizzazione connesse a quell’intervento, e li si utilizzi davvero (come prescrive la legge del 1977) per acquisire, realizzare, far funzionare le attrezzature necessarie. Si utilizzino saggiamente le vaste aree vincolabili nelle loro caratteristiche di natura e paesaggio che la legislazione consente di conservare nel loro stato senza bisogno di indennizzare il vincolo, consentendone l’utilizzazione agli abitanti delle aree limitrofe.
E si impari a fare i conti in tasca a chi compie operazioni immobiliari, ponendo a carico dei suoi oneri quote consistenti del valore dovuto all’incremento della rendita. In questa logica, come qualche comune sta iniziando a fare, si può rendere attuale un’antica intuizione di un grande esperto di diritto amministrativo, Alberto Predieri, che – a proposito della pianificazione veneziana – propose oltre trent’anni fa di inserire l’edilizia sociale tra le urbanizzazioni necessarie, da porre a carico degli standard urbanistici e dei relativi oneri. E dare così un contributo serio al problema della casa in affitto a canone sociale, di un’edilizia abitativa che resti pubblica e in affitto per sempre.
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