I cosiddetti piccoli editori, almeno in Italia, hanno diversi meriti; i più evidenti sono quelli legati ad una ricerca capillare di autori poco noti, ma per questo non meno importanti, di cui far conoscere le opere, il pensiero, tutta l'esistenza. L'editore Fazi, oramai piccolo soltanto per coloro che hanno parametri di grandezza che prendono in esame in modo prioritario il capitale sociale di un'azienda, ha dato alle stampe un bel volume dal titolo "Diario di un intellettuale disoccupato" (245 pagine, 26.000 lire), opera giovanile di Denis de Rougemont, scrittore svizzero di lingua francese scomparso alla metà degli anni Ottanta (era nato a Neuchatel nel 1906) dopo essere stato uno degli ispiratori delle più interessanti idee della cultura e della politica contemporanea, dall'unione dell'Europa e all'ecologismo come valore politico militante. Aver detto "opera giovanile" mi obbliga a mettere subito in evidenza un fatto peculiare di questo autore: giovane, nel senso più comune del termine, ovvero acerbo, Denis de Rougemont sembra non esserlo stato mai. Nel 1932, ossia a 26 anni, fondò con Emmanuel Mounier la rivista del personalismo "Esprit"; e "L'Amore e l'Occidente"; l'importante saggio psicologico, storico ed etico che più lo rese noto al grande pubblico, è del 1939, anno in cui de Rougemont aveva soltanto trentatré anni. Quando scrisse il "Diario", ne aveva meno di trenta, ed essendo questa un'opera di transizione tra la giovinezza e la maturità per sua stessa ammissione, pare davvero che egli fosse arrivato con cospicuo anticipo a quella tappa esistenziale che il grande Conrad ha chiamato "La linea d'ombra". Il "Journal d'un intellectuel au chomage" è il resoconto di una sua esperienza. Perduto il lavoro presso una casa editrice, de Rougemont decide di provare a vivere senza lavorare, trasferendosi su un'isola per dedicarsi completamente alla propria vocazione. Il libro è la cronaca asciutta (forse fin troppo secca, "dry" per dirla all'inglese) di questo esperimento che investe il doppio versante della vita e dell'opera. E' il "diario non intimo" di un esiliato volontario che mai vuol cedere ad una consolazione estetica vagamente decadente, ma che, pur aborrendo le prese di posizione plateali e le forzature ideologiche, tenta di redimere il dissidio tra etica ed estetica in un'esistenza limpida in quanto morale. Come ogni intellettuale che ha deciso di innescare sull'albero della propria vita quello della propria opera, il frutto che de Rougemont raccoglie e ci dona è lo stile: lo stile che è, per decreto ancestrale, una scelta di vita. "I libri dovrebbero essere utili", annota perentorio. "Dovrebbero contenere informazioni concrete, formule esatte, dimostrazioni verificabili, modalità d'impiego, descrizioni oggettive e praticabili; e questo a tutti i livelli del reale, nelle grandi cose, come nelle minime". Nel vergare questo diario, il giovane scrittore obbedisce a un compito che, ancora una volta, si svolge su due differenti piani: sull'osservazione e sulla precisazione della condizione di intellettuale disoccupato, quindi un piano intellettivo e speculativo; e sulla dimostrazione concreta, attraverso l'esperienza e l'esempio - quindi con la pratica di vita - che non è impossibile vivere con poco e senza reddito fisso. Tutto ciò con l'imperativo di non scivolare mai nella cultura delle impressioni o del pittoresco. "L'intellettuale non sarà mai un disoccupato assoluto, dato che continua a pensare, cioè a esercitare il suo mestiere", osserva de Rougemont. Ma "la disoccupazione declassa l'intellettuale. Essa lo pone su un piano di parità paradossale con gli uomini che lo circondano. Lo spoglia degli attributi esteriori del suo stato, di quell'habitus borghese che, ahimè, resta ancora da noi il marchio dell'intellettuale. E per questo motivo, il disoccupato intellettuale rischia perfino di apparire inferiore alla gente di mestiere tra le quali si trova a vivere". Il giovane scrittore prova, infatti, non poca fatica a far comprendere ai contadini che abitano intorno alla sua casa sull'isola "che cosa" egli sia, cosa faccia per guadagnarsi quel sia pur poco pane che giunge alla sua mensa: ciò che più manca a un disoccupato è una funzione sociale, uno straccio di ruolo da esibire come garanzia della propria esistenza. Difatti, col solito tono pacato e semplice, de Rougemont fa un'osservazione finissima sulla povertà: "Non sarebbe un problema sociale così grave, se non fosse anzitutto un problema morale irrisolto". Povertà per noi moderni non significa, come per i contadini d'un tempo, "pane e fatica", bensì "umiliazione". Con questo "Journal" si capisce come si possa uscire dalla città dove si fa carriera senza uscire dalla vita vera, e che si può vivere con molto poco senza per questo cessare di vivere pienamente. Per dirla con de Rougemont: "Ecco il grande rovesciamento che segna la soglia della maturità: è il momento in cui si scopre che il mondo non riserva altre risposte se non quelle che si ha il coraggio di fornirgli". Dopo simili riflessioni si può ben tornare alla città rigenerati: la condizione di intellettuale disoccupato per de Rougemont durò un anno, di lì in poi università e accademie celebrarono il suo genio professionale. Nel 1940 andò a vivere negli Stati Uniti e in quel lungo soggiorno Oltre Oceano pubblicò "La part du diable", sulla crisi della coscienza europea. Tornato in patria nel dopoguerra, da ardente federalista qual era fondò a Ginevra il Centro europeo della Cultura e scrisse (1954) "Federalismo e Nazionalismo", seguito da "L'avventura occidentale dell'uomo", "Ventotto secoli d'Europa", "Le possibilità dell'Europa" e, nel 1970, "Lettera aperta agli Europei". La stagione del "Diario" segnò certo il fiorire del primo seme.
TANTI INTERESSI PRIVATI NON FANNO UNA CITTA'!
La mer, la fin...
mercoledì 1 aprile 2009
Riflessioni. Diario di un intellettuale disoccupato
Ripeschiamo dal web la recensione di Giovanni F. Accolla del libro di Denis de Rougemont "Diario di un intellettuale disoccupato". Ne segnialiamo, in verde, un paio di passaggi... significativi... MV
GIOIE E DOLORI DI UN INTELLETTUALE CHE NON HA UN IMPIEGO FISSO
I cosiddetti piccoli editori, almeno in Italia, hanno diversi meriti; i più evidenti sono quelli legati ad una ricerca capillare di autori poco noti, ma per questo non meno importanti, di cui far conoscere le opere, il pensiero, tutta l'esistenza. L'editore Fazi, oramai piccolo soltanto per coloro che hanno parametri di grandezza che prendono in esame in modo prioritario il capitale sociale di un'azienda, ha dato alle stampe un bel volume dal titolo "Diario di un intellettuale disoccupato" (245 pagine, 26.000 lire), opera giovanile di Denis de Rougemont, scrittore svizzero di lingua francese scomparso alla metà degli anni Ottanta (era nato a Neuchatel nel 1906) dopo essere stato uno degli ispiratori delle più interessanti idee della cultura e della politica contemporanea, dall'unione dell'Europa e all'ecologismo come valore politico militante. Aver detto "opera giovanile" mi obbliga a mettere subito in evidenza un fatto peculiare di questo autore: giovane, nel senso più comune del termine, ovvero acerbo, Denis de Rougemont sembra non esserlo stato mai. Nel 1932, ossia a 26 anni, fondò con Emmanuel Mounier la rivista del personalismo "Esprit"; e "L'Amore e l'Occidente"; l'importante saggio psicologico, storico ed etico che più lo rese noto al grande pubblico, è del 1939, anno in cui de Rougemont aveva soltanto trentatré anni. Quando scrisse il "Diario", ne aveva meno di trenta, ed essendo questa un'opera di transizione tra la giovinezza e la maturità per sua stessa ammissione, pare davvero che egli fosse arrivato con cospicuo anticipo a quella tappa esistenziale che il grande Conrad ha chiamato "La linea d'ombra". Il "Journal d'un intellectuel au chomage" è il resoconto di una sua esperienza. Perduto il lavoro presso una casa editrice, de Rougemont decide di provare a vivere senza lavorare, trasferendosi su un'isola per dedicarsi completamente alla propria vocazione. Il libro è la cronaca asciutta (forse fin troppo secca, "dry" per dirla all'inglese) di questo esperimento che investe il doppio versante della vita e dell'opera. E' il "diario non intimo" di un esiliato volontario che mai vuol cedere ad una consolazione estetica vagamente decadente, ma che, pur aborrendo le prese di posizione plateali e le forzature ideologiche, tenta di redimere il dissidio tra etica ed estetica in un'esistenza limpida in quanto morale. Come ogni intellettuale che ha deciso di innescare sull'albero della propria vita quello della propria opera, il frutto che de Rougemont raccoglie e ci dona è lo stile: lo stile che è, per decreto ancestrale, una scelta di vita. "I libri dovrebbero essere utili", annota perentorio. "Dovrebbero contenere informazioni concrete, formule esatte, dimostrazioni verificabili, modalità d'impiego, descrizioni oggettive e praticabili; e questo a tutti i livelli del reale, nelle grandi cose, come nelle minime". Nel vergare questo diario, il giovane scrittore obbedisce a un compito che, ancora una volta, si svolge su due differenti piani: sull'osservazione e sulla precisazione della condizione di intellettuale disoccupato, quindi un piano intellettivo e speculativo; e sulla dimostrazione concreta, attraverso l'esperienza e l'esempio - quindi con la pratica di vita - che non è impossibile vivere con poco e senza reddito fisso. Tutto ciò con l'imperativo di non scivolare mai nella cultura delle impressioni o del pittoresco. "L'intellettuale non sarà mai un disoccupato assoluto, dato che continua a pensare, cioè a esercitare il suo mestiere", osserva de Rougemont. Ma "la disoccupazione declassa l'intellettuale. Essa lo pone su un piano di parità paradossale con gli uomini che lo circondano. Lo spoglia degli attributi esteriori del suo stato, di quell'habitus borghese che, ahimè, resta ancora da noi il marchio dell'intellettuale. E per questo motivo, il disoccupato intellettuale rischia perfino di apparire inferiore alla gente di mestiere tra le quali si trova a vivere". Il giovane scrittore prova, infatti, non poca fatica a far comprendere ai contadini che abitano intorno alla sua casa sull'isola "che cosa" egli sia, cosa faccia per guadagnarsi quel sia pur poco pane che giunge alla sua mensa: ciò che più manca a un disoccupato è una funzione sociale, uno straccio di ruolo da esibire come garanzia della propria esistenza. Difatti, col solito tono pacato e semplice, de Rougemont fa un'osservazione finissima sulla povertà: "Non sarebbe un problema sociale così grave, se non fosse anzitutto un problema morale irrisolto". Povertà per noi moderni non significa, come per i contadini d'un tempo, "pane e fatica", bensì "umiliazione". Con questo "Journal" si capisce come si possa uscire dalla città dove si fa carriera senza uscire dalla vita vera, e che si può vivere con molto poco senza per questo cessare di vivere pienamente. Per dirla con de Rougemont: "Ecco il grande rovesciamento che segna la soglia della maturità: è il momento in cui si scopre che il mondo non riserva altre risposte se non quelle che si ha il coraggio di fornirgli". Dopo simili riflessioni si può ben tornare alla città rigenerati: la condizione di intellettuale disoccupato per de Rougemont durò un anno, di lì in poi università e accademie celebrarono il suo genio professionale. Nel 1940 andò a vivere negli Stati Uniti e in quel lungo soggiorno Oltre Oceano pubblicò "La part du diable", sulla crisi della coscienza europea. Tornato in patria nel dopoguerra, da ardente federalista qual era fondò a Ginevra il Centro europeo della Cultura e scrisse (1954) "Federalismo e Nazionalismo", seguito da "L'avventura occidentale dell'uomo", "Ventotto secoli d'Europa", "Le possibilità dell'Europa" e, nel 1970, "Lettera aperta agli Europei". La stagione del "Diario" segnò certo il fiorire del primo seme.
I cosiddetti piccoli editori, almeno in Italia, hanno diversi meriti; i più evidenti sono quelli legati ad una ricerca capillare di autori poco noti, ma per questo non meno importanti, di cui far conoscere le opere, il pensiero, tutta l'esistenza. L'editore Fazi, oramai piccolo soltanto per coloro che hanno parametri di grandezza che prendono in esame in modo prioritario il capitale sociale di un'azienda, ha dato alle stampe un bel volume dal titolo "Diario di un intellettuale disoccupato" (245 pagine, 26.000 lire), opera giovanile di Denis de Rougemont, scrittore svizzero di lingua francese scomparso alla metà degli anni Ottanta (era nato a Neuchatel nel 1906) dopo essere stato uno degli ispiratori delle più interessanti idee della cultura e della politica contemporanea, dall'unione dell'Europa e all'ecologismo come valore politico militante. Aver detto "opera giovanile" mi obbliga a mettere subito in evidenza un fatto peculiare di questo autore: giovane, nel senso più comune del termine, ovvero acerbo, Denis de Rougemont sembra non esserlo stato mai. Nel 1932, ossia a 26 anni, fondò con Emmanuel Mounier la rivista del personalismo "Esprit"; e "L'Amore e l'Occidente"; l'importante saggio psicologico, storico ed etico che più lo rese noto al grande pubblico, è del 1939, anno in cui de Rougemont aveva soltanto trentatré anni. Quando scrisse il "Diario", ne aveva meno di trenta, ed essendo questa un'opera di transizione tra la giovinezza e la maturità per sua stessa ammissione, pare davvero che egli fosse arrivato con cospicuo anticipo a quella tappa esistenziale che il grande Conrad ha chiamato "La linea d'ombra". Il "Journal d'un intellectuel au chomage" è il resoconto di una sua esperienza. Perduto il lavoro presso una casa editrice, de Rougemont decide di provare a vivere senza lavorare, trasferendosi su un'isola per dedicarsi completamente alla propria vocazione. Il libro è la cronaca asciutta (forse fin troppo secca, "dry" per dirla all'inglese) di questo esperimento che investe il doppio versante della vita e dell'opera. E' il "diario non intimo" di un esiliato volontario che mai vuol cedere ad una consolazione estetica vagamente decadente, ma che, pur aborrendo le prese di posizione plateali e le forzature ideologiche, tenta di redimere il dissidio tra etica ed estetica in un'esistenza limpida in quanto morale. Come ogni intellettuale che ha deciso di innescare sull'albero della propria vita quello della propria opera, il frutto che de Rougemont raccoglie e ci dona è lo stile: lo stile che è, per decreto ancestrale, una scelta di vita. "I libri dovrebbero essere utili", annota perentorio. "Dovrebbero contenere informazioni concrete, formule esatte, dimostrazioni verificabili, modalità d'impiego, descrizioni oggettive e praticabili; e questo a tutti i livelli del reale, nelle grandi cose, come nelle minime". Nel vergare questo diario, il giovane scrittore obbedisce a un compito che, ancora una volta, si svolge su due differenti piani: sull'osservazione e sulla precisazione della condizione di intellettuale disoccupato, quindi un piano intellettivo e speculativo; e sulla dimostrazione concreta, attraverso l'esperienza e l'esempio - quindi con la pratica di vita - che non è impossibile vivere con poco e senza reddito fisso. Tutto ciò con l'imperativo di non scivolare mai nella cultura delle impressioni o del pittoresco. "L'intellettuale non sarà mai un disoccupato assoluto, dato che continua a pensare, cioè a esercitare il suo mestiere", osserva de Rougemont. Ma "la disoccupazione declassa l'intellettuale. Essa lo pone su un piano di parità paradossale con gli uomini che lo circondano. Lo spoglia degli attributi esteriori del suo stato, di quell'habitus borghese che, ahimè, resta ancora da noi il marchio dell'intellettuale. E per questo motivo, il disoccupato intellettuale rischia perfino di apparire inferiore alla gente di mestiere tra le quali si trova a vivere". Il giovane scrittore prova, infatti, non poca fatica a far comprendere ai contadini che abitano intorno alla sua casa sull'isola "che cosa" egli sia, cosa faccia per guadagnarsi quel sia pur poco pane che giunge alla sua mensa: ciò che più manca a un disoccupato è una funzione sociale, uno straccio di ruolo da esibire come garanzia della propria esistenza. Difatti, col solito tono pacato e semplice, de Rougemont fa un'osservazione finissima sulla povertà: "Non sarebbe un problema sociale così grave, se non fosse anzitutto un problema morale irrisolto". Povertà per noi moderni non significa, come per i contadini d'un tempo, "pane e fatica", bensì "umiliazione". Con questo "Journal" si capisce come si possa uscire dalla città dove si fa carriera senza uscire dalla vita vera, e che si può vivere con molto poco senza per questo cessare di vivere pienamente. Per dirla con de Rougemont: "Ecco il grande rovesciamento che segna la soglia della maturità: è il momento in cui si scopre che il mondo non riserva altre risposte se non quelle che si ha il coraggio di fornirgli". Dopo simili riflessioni si può ben tornare alla città rigenerati: la condizione di intellettuale disoccupato per de Rougemont durò un anno, di lì in poi università e accademie celebrarono il suo genio professionale. Nel 1940 andò a vivere negli Stati Uniti e in quel lungo soggiorno Oltre Oceano pubblicò "La part du diable", sulla crisi della coscienza europea. Tornato in patria nel dopoguerra, da ardente federalista qual era fondò a Ginevra il Centro europeo della Cultura e scrisse (1954) "Federalismo e Nazionalismo", seguito da "L'avventura occidentale dell'uomo", "Ventotto secoli d'Europa", "Le possibilità dell'Europa" e, nel 1970, "Lettera aperta agli Europei". La stagione del "Diario" segnò certo il fiorire del primo seme.
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