Guido Viale
L'automobile ha dominato l'evoluzione economica, sociale, ambientale e culturale del secolo scorso: paesaggi ormai tutti segnati da viadotti, svincoli, nastri di asfalto, stazioni di servizio; vita urbana che trascorre in mezzo a ingorghi e tempi morti e solitudine imposti dal traffico; aria infestata dai miasmi degli scappamenti e dal rombo dei motori e il frastuono dei clacson; salute minata dall'inquinamento e dagli incidenti stradali; bilanci comunali prosciugati dalla gestione di circolazione e servizi di trasporto pubblico imprigionati da auto in sosta e in movimento; bilanci familiari divorati dalla spesa per mantenere una, due, o tre auto. L'auto è penetrata fin dentro l'immaginario individuale e collettivo e continua a essere l'oggetto dei desideri di chi già ce l'ha, di chi non l'ha ancora e di chi non la potrà mai avere; dal primo al quarto mondo. Perché realizza un sogno antico come il mondo: non essere più fante ma cavaliere.Ma l'automobile ha improntato anche l'organizzazione del lavoro del secolo scorso (non a caso è stata chiamata fordismo) e tutte le strutture sociali e politiche che il fordismo ha prodotto direttamente o reso possibili indirettamente: dequalificazione e parcellizzazione del lavoro; separazione tra esecuzione, direzione e controllo; piena occupazione e alti salari (o quasi) e consumi di massa; welfare state e dilatazione della spesa pubblica. E poi, ipertrofia dei settori a monte della sua produzione: siderurgia, meccanica, elettronica, gomma, ecc.; di quelli impegnati a farla circolare: costruzioni, riparazioni, marketing; e dell'industria del petrolio: prospezioni, estrazione, navigazione e cantieri navali, raffinazione, ecc.. Per tutte queste connessioni l'automobile rischia di essere la palla al piede della irrinunciabile transizione a un mondo che dovrà fare a meno dei combustibili fossili. Palla al piede perché dal lato del consumo, l'automobile ha da tempo cessato di essere un fattore di sviluppo della mobilità; da soluzione ne è diventata il problema principale. Da promessa di libertà (partire e arrivare quando e con chi si vuole: cioè, dicono le statistiche, per lo più da soli) è diventata ostacolo: ingorghi, inquinamento, costi insostenibili: un rebus di cui trasportisti e assessori non riescono a venire a capo, perché non hanno coraggio, cultura, o capacità di «prendere il toro per le corna». Perché il «toro» non è il traffico, o la qualità dell'aria, o la mancanza di parcheggi, sottopassi o semafori «intelligenti», o la larghezza delle strade, ma la proliferazione dei veicoli, che rubano spazio alla vita e alla socialità e che, anche nell'orizzonte temporale di una politica lungimirante, continueranno ad andare a petrolio, o con derivati dei combustibili fossili. Per mandare avanti una flotta di auto come quella attuale con idrogeno o elettricità prodotta da centrali nucleari, ce ne vorrebbero altre 5.000; oggi nel mondo ce ne sono meno di 450! E continueranno a emettere gas di serra e particolato: non solo dagli scappamenti, a cui guardano tutti, ma soprattutto per l'attrito di miliardi di ruote contro il fondo stradale, di ganasce sui dischi dei freni e dal continuo sollevamento del pulviscolo prodotto. Dal lato della produzione, l'automobile, nonostante continui a fagocitare tutte o quasi le innovazioni che elettronica, telematica, chimica, fisica, metallurgia, robotica e design le mettono a disposizione, ha cessato da tempo di essere motore di innovazione. Ma è rimasta con un carico sovrabbondante di lavoratori in produzione e nell'indotto che la corsa alla delocalizzazione è riuscita solo in parte a ridurre; e con un pugno di «case automobilistiche» che non riescono più a far quadrare i bilanci e che oggi, nonostante la contrapposizione tra la «materialità» delle loro produzioni e la volatilità dell'alta finanza, rappresentano una minaccia per la stabilità del sistema anche maggiore di quella provocata dal default di borse, banche, assicurazioni e fondi vari. Così oggi in tutto il mondo, e con tanta più arroganza quanto più è stata coccolata e foraggiata nei decenni trascorsi, l'industria dell'auto esige dai bilanci degli stati e, attraverso questi, dai cittadini-contribuenti, un tributo che estragga forzosamente dalle loro tasche una integrazione del fatturato che il cittadino-consumatore non è più in grado di garantire con i suoi acquisti. E' sensato assecondare queste pretese? No.
Nessun commento:
Posta un commento