TANTI INTERESSI PRIVATI NON FANNO UNA CITTA'!

La mer, la fin...

martedì 25 novembre 2008

Economia. Ancora sul distretto

Ci sembra evidente, dal tono dell'articolo, che anche Paolo Nencioni sostenga il punto di vista espresso dall'Unione Industriali.
A noi, il sospetto che le aziende di confezioni cinesi si rifornissero anche da qualche industrialotto nostrano (magari gli stessi che hanno chiuso a Prato per riaprire in più ameni posti...) era già venuto molto tempo fa.
Ci sembra però che dal dibattito sia sparito un dato, riportato sempre dalla ricerca sul distretto: quello dei quattromila posti di lavoro che proprio pratesissimi pratesi hanno deciso di togliere alla città, nel loro processo di "delocalizzazione" delle imprese: Marini, di questo, non ci pare ne abbia parlato. O forse lo ha fatto in Vietnam...
Contuinueremo a seguire, con attenzione, il dibattito!
MV

da Il Tirreno del 25/11/08
I cinesi restano un corpo estraneo

Risorsa o problema per il distretto? I tessuti li acquistano all’estero
Dibattito sul ruolo della comunità nell’economia locale Import per 116 milioni nel solo 2007
PRATO. Nel dibattito mai risolto sul ruolo degli stranieri, e in particolare dei cinesi, nell’economia del distretto industriale pratese si è inserito in questi giorni lo studio commissionato dalla Provincia all’Asel, il Rapporto 2007 sull’immigrazione con l’appendice “Distretto parallelo o chiusura della filiera?”. Uno studio che ha già provocato qualche frizione tra la stessa Provincia e l’Unione industriale, il cui presidente Riccardo Marini ci ha letto un giudizio positivo, che non condivide, sul ruolo dei cinesi come sostegno al distretto tessile. In realtà la ricerca non dà risposte così nette ma contiene alcuni spunti interessanti.
Pronto all’inizio dell’anno e stampato prima dell’estate, lo studio curato da Paolo Sambo e Fabio Bracci è rimasto chiuso in un cassetto per qualche mese. Sui motivi di questo congelamento non staremo a indagare. Conviene invece tirar fuori qualche cifra sul mercato del lavoro e sui flussi finanziari.
Stranieri assunti, italiani licenziati. Nel corso del 2006, l’ultimo anno preso in esame dallo studio, il saldo tra assunti e licenziati italiani è -824, mentre lo stesso saldo per gli stranieri non comunitari è positivo per 1.023 unità. Sembrerebbe la conferma della tesi sostenuta da alcuni secondo cui gli stranieri rubano il lavoro agli italiani. In realtà si tratta di due dinamiche diverse. In altre parole, rifinizioni e lanifici italiani licenziano per gli effetti di una crisi globale, mentre i confezionisti cinesi occupano un altro settore e assumono solo connazionali (come li assumono si vedrà in seguito). «A chi fa l’equazione tra crisi del distretto e presenza dei cinesi - osserva il ricercatore Fabio Bracci - io risponderei: siete sicuri che se vanno via i cinesi il distretto rifiorisce? Io credo di no».
Impiego fisso o finto? Tra i dati dello studio Asel ce n’è uno che colpisce più di altri. La percentuale delle assunzioni a tempo indeterminato (il mitico impiego fisso) tra i cinesi è del 95%, mentre tra gli italiani si ferma al 22,7%. Anche qui i numeri ingannano, perché quel 95% di posti fissi evaporano nel giro di pochi mesi. Solo il 7% - lo ha ricordato Marini nei giorni scorsi - arriva alla soglia dei due anni. E il 95% di chi perde il posto tra i cinesi lo fa per “dimissioni volontarie” (tra gli italiani è il 32,6%). Lo studio non lo dice, ma il fenomeno si spiega coi permessi di soggiorno: chi ha un lavoro a tempo indeterminato ottiene un permesso di due anni, chi è a tempo determinato lo ottiene per la durata del contratto o per sei mesi. Ecco perché tutti questi posti fissi, che spesso sono finti. L’operaio viene assunto con l’accordo che poi si dimetterà “volontariamente”. Magari rimarrà alle dipendenze del confezionista, ma a nero.
Cinesi, risorsa o corpo estraneo? Sugli effetti dell’imprenditoria cinese sull’economia del distretto tessile ci sono due scuole di pensiero. La prima, ripresa dal ricercatore Zanni nel suo “Distretti industriali e imprese artigiane”, sostiene che i pronto moda cinesi si riforniscano per quote importanti dai produttori pratesi, e dunque contribuiscano a tenere a galla il distretto. La seconda, sposata da Riccardo Marini, è che in realtà la gran parte dei tessuti arrivi dalla Cina e che dunque il “distretto cinese” sia un corpo estraneo. Basta citare un dato: le importazioni di tessuti dalla Cina a Prato nel 2007 ammontano a 116,9 milioni di euro, pari a oltre 100 milioni di metri di tessuto, ed è un importo quasi certamente sottostimato. Dunque sembra aver ragione Marini quando si dice scettico sui fantomatici acquisti cinesi a Prato. E lo stesso Zanni ammette che acquistare tessuti a Prato non significa che l’intermediario non li abbia importati dalla Cina. Gli importatori cinesi sono almeno una dozzina, altri operano da Napoli e da Milano. La mussola d’importazione made in China, secondo “L’assedio cinese” di Silvia Pieraccini, si acquista anche a 80 centesimi al metro, la gabardina a 1,30 e i rasi di seta a 3,50. Chi ordina il colore in Cina deve aspettare un paio di mesi, ma ha il vantaggio di pagare la tintura solo 10 centesimi. Insomma, in prospettiva o forse già oggi, Prato è una piattaforma per vendere in Europa le merci che i cinesi producono qui o importano dall’Oriente.
Ma chi dice che in qualche modo i cinesi tengono su il distretto probabilmente pensa al resto: agli stanzoni presi in affitto che altrimenti sarebbero rimasti vuoti, alle case sfitte che rischiavano di fare la stessa fine, alle Bmw e Mercedes che sarebbero rimaste invendute. Chi vende e affitta ai cinesi non può lamentarsi.
La ricchezza nascosta. C’è poi l’anomalia tutta pratese dei milioni di euro che ogni settimana prendono il volo per la Cina via money transfer, una cifra procapite tripla di quella di Roma, la seconda città nella classifica delle rimesse. Lo studio dell’Asel sfiora appena l’argomento e non dà una spiegazione plausibile. Anche in questo caso però l’ipotesi è che Prato sia diventata la “piattaforma” finanziaria per soldi che vengono accumulati altrove e devono tornare in Cina.
Paolo Nencioni

2 commenti:

Damiano ha detto...

La ricerca di Zanni effettauta oltre due anni fa, si riferisce ad interviste fatte ad imprenditori cinesi, e non su dati economici. Essi affermano all'80% di comprare il tessuto a Prato. Questo non vuol dire però che il tesuto sia prodotto a Prato. Si può comprare il tessuto da un import/export pratese o cinese presente a Prato e fatturare a Prato, ma comprare del tessuto prodotto in Cina o altrove.

Anonimo ha detto...

Certo! Verissimo! In linea teorica, possono pure comprare il tessuto prodotto in Cina da imprenditori pratesi con macchine pratesi che si sono trasferiti nella zona perché la manodopera costa meno... Chi lo sa?