Il rapporto della Fondazione Ethnoland, realizzato con Caritas, Abi e Unioncamere
Le imprese costituite dagli stranieri impiegano il 10% dei lavoratori dipendenti Dal lavoro degli immigrati un decimo del Pil italiano
Si tratta di oltre 165.000 società, il triplo rispetto al 2003. Trentamila solo in Lombardia
I romeni preligono l'edilizia, i marocchini il commercio, i cinesi il settore manifatturiero
di ROSARIA AMATO
ROMA - Pressy, immigrata filippina da vent'anni in Italia, lavora a ore come colf di mattina poi, insieme al marito, gestisce un call center per immigrati il pomeriggio e, di sera, una pizzeria nel quartiere più animato di vita notturna a Roma, Trastevere. Un esempio di rara industriosità? Non proprio. Le imprese costituite da immigrati in Italia nel giugno del 2008 erano già 165.144. Una ogni 33 registrate nel nostro Paese. Garantiscono occupazione a un decimo dei lavoratori dipendenti, italiani e stranieri, e contribuiscono alla formazione di circa un decimo del prodotto interno lordo. Lo attesta un'indagine della Fondazione Ethnoland, realizzata in collaborazione con la Caritas e con diverse organizzazioni economiche, dall'Abi a Confartigianato e Unioncamere.
Uno studio di Unioncamere e dell'Istituto Tagliacarne, infatti, utilizzando dati relativi al 2006, ha accertato che è dovuto agli immigrati il 9,2% del valore aggiunto, corrispondente a una quota di 122 miliardi del Pil. Solo nel 2006 le imprese appartenenti a immigrati hanno assicurato un gettito fiscale pari a 4 miliardi di euro. Nel 2007 era già arrivato a 5,5 miliardi. Senza contare che anche i lavoratori dipendenti stranieri hanno un peso ormai rilevante nella nostra economia: l'Inps ha accertato che gli immigrati assicurano, annualmente, un ammontare di 5 miliardi di euro come contributi previdenziali e, al contrario, percepiscono ancora un numero molto limitato di pensioni, essendo per lo più lavoratori giovani.
Sono numeri strabilianti per un Paese che solo recentemente ha preso atto di quella che da molti è ancora considerata una realtà economica nascente, però marginale, forse tutto sommato anche un po' folkloristica: quella dell'immigrato imprenditore, accanto al molto più comune vu cumprà e all'esercito di badanti e di clandestini che delinquono. Invece, nel giro di pochissimi anni, i numeri dell'imprenditoria straniera si sono triplicati: nel 2003 risultavano registrate appena 56.421 imprese guidate da immigrati.
Si va dalle 30.000 aziende in Lombardia alle circa 1000 esistenti nelle regioni più piccole. Ma ci sono regioni, soprattutto meridionali, come la Sardegna, la Sicilia e la Calabria, nelle quali gli immigrati hanno eguagliato il tasso di imprenditorialità degli italiani, mentre in diverse Regioni del Nord e del Centro, tra le quali Piemonte, Emilia Romagna e Toscana, il "pareggio" appare molto vicino.
Non bisogna pensare che si tratti solo di negozi di frutta e verdura o di abbigliamento cinese low cost. Il settore più privilegiato dagli imprenditori immigrati è quello dell'industria con 83.578 aziende, circa la metà (50,6%). Prevalgono le aziende edili, 64.549, pari a 4 su 10 di quelle gestite da immigrati, per lo più provenienti dall'Est Europa. Seguono quelle del comparto tessile, abbigliamento e calzature (10.470 aziende) e qui, com'è noto, prevalgono i cinesi. Segue il settore dei servizi, con 77.515 aziende, a prevalenza commerciali.
La vocazione imprenditoriale, osservano i curatori del Rapporto, non è distribuita in modo uniforme tra tutte le nazionalità. Appare molto spiccata negli immigrati dal Marocco (sono i titolari del 67,5% delle imprese dedite al commercio) e dalla Romania (più dell'80% dei titolari di aziende edili) mentre la Cina si ripartisce l'industria manufatturiera (46%) e il commercio (44,6%).
Il fenomeno dell'imprenditoria straniera sfugge ancora al cittadino comune e, circostanza più grave, allo Stato. "Chi si dichiara disponibile all'accoglienza di un'immigrazione di qualità - osserva Otto Bitijoka, presidente della Fondazione Ethnoland - deve essere aiutato a capire che tale immigrazione si trova già sul posto. Bisogna adoperarsi, perciò, perché gli immigrati contino più come lavoratori, come imprenditori e come cittadini". Oggi, uno straniero che intenda aprire un'impresa è ostacolato da una burocrazia ancora più pesante che per gli italiani, e da costi non indifferenti: per aprire un'attività autonoma, ricorda il Rapporto, sono necessarie un paio di settimane durante le quali bisogna rivolgersi ad almeno nove uffici diversi, con una spesa di 3.587 euro.
In Italia, ad aver capito forse prima di altri che gli imprenditori stranieri sono una risorsa sono state le banche: in media 7 imprenditori immigrati su 10 sono clienti degli istituti di credito italiani. Clienti ambiziosi: a spingere un immigrato ad avviare un'impresa è il maggior guadagno, visto che da dipendenti la loro paga è appena il 60% di quella di un italiano. E poi, rileva il rapporto, gli immigrati vogliono "scrollarsi di dosso i pregiudizi dando di sé un'immagine più veritiera".
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