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da la Nazione del 28/01/09
Berardi: «Il distretto è saltato e non ce ne siamo accorti» L’economista: «Declino reale e rischi di tenuta sociale»
di ANNA BELTRAME
DATI, riflessioni amare, timori gravi per il futuro. L’analisi che Donato Berardi, l’economista gruppo 38-1, stasera presenterà da Soprattuttolibri farà discutere e pensare. Secondo lui la storia di ciò che è realmente accaduto a Prato dopo il 2001 è ancora in gran parte da scrivere. E sono soprattutto tre le questioni chiave: le trasformazioni reali del manifatturiero, il ruolo dell’economia cinese, il fatto che al punto di massima flessibilità economica del distretto corrisponda il massimo della rigidità sociale. «A muovere i redditi — dice Berardi — e a fornire opportunità, sono più i patrimoni, piuttosto che nuovi rischi d’impresa o scommesse imprenditoriali. Su questi punti la pochezza, la parzialità e l’incoerenza delle analisi più diffuse sono palesi e drammatiche». Ma ecco le cifre.
TRA IL 2001 e il 2008 (3° trimestre) il peso del manifatturiero cala dal 33.9% a 29.5%; il terziario, anche se in crescita, rimane ancora di 3.5 punti percentuali inferiore al dato nazionale, con scarsa presenza di aziende del cosiddetto terziario avanzato. Nello stesso periodo si registra un saldo attivo di oltre 2.780 imprese, ma escludendo le ditte impegnate nei settori immobiliare e delle costruzioni (vi opera il 27% delle aziende, una delle quote più alte in Italia), si riduce a 655. Non solo. Le imprese tessili segnano un saldo negativo di 1691, quelle dell’abbigliamento (dove è forte la presenza dei cinesi) un aumento di 1288. Inoltre, sono scomparse oltre 2.200 imprese tessili (per due terzi artigiane) e per ogni 100 aziende attive nel 2001 ne rimangono solo 65 nel 2008. Nel 2002 le imprese a conduzione straniera erano il 10% (il 6% cinesi), nel 2007 il 17% (il 12% cinesi).
MALE anche l’export. Fra il 2001 e il 2007 si sono perse esportazioni tessili per circa 800 milioni di euro, con un -24% per i filati e un -32% per i tessuti, e anche il 2008 è in negativo. Nello stesso periodo, la quota pratese di esportazioni tessili sul totale nazionale passa dal 14.9% al 11.3%, mentre per Biella la quota passa dal 6.8% del 2000 al 7.7% del 2006. Secondo Berardi, «questi elementi indicano che il grado di competitività delle produzioni tessili pratesi è stato più debole dell’insieme delle produzioni nazionali e ancora di più di quelle biellesi». Inoltre, il tessile abbigliamento pesa per oltre l’84% dell’export; le esportazioni di altri prodotti valevano 350 milioni nel 2007, contro i 360 del 2001: «Il livello di differenziazione è ancora largamente insufficiente», commenta l’economista.
SECONDO Berardi, «il distretto come lo conoscevamo non esiste più e tutte le azioni intentate in questi anni non hanno operato sulle cause prime di questa situazione». Le cause sono l’«effetto spiazzante» della globalizzazione e l’«attrazione fatale» dell’economia cinese. «Si è innescato un meccanismo regressivo che può portare ad un declino reale, a fratture e conflitti sociali rilevanti», aggiunge l’economista. Berardi ricorda che, nella storia recente dell’occidente, nessuna città di dimensioni simili alla nostra ha conosciuto un processo di immigrazione cinese di tale intensità in soli dieci anni. Rileva due dati, illuminanti: nel primo trimestre 2007 a Prato risultavano attive 3.155 imprese a conduzione cinese in grandissima parte concentrate nell’abbigliamento, ma nel 2007 le esportazioni di questi prodotti, pari a 227 milioni, erano quasi uguali a quelle del 2001 (215 milioni). Si pone tre domande, Berardi. Dove e come vendono i cinesi? Quanto sono rilevanti le ‘relazioni pericolose’ con alcune griffe della moda italiana? Che origine hanno gli enormi flussi finanziari che da Prato affluiscono in Cina? «E’ incredibile — commenta — che a Prato si parli di futuro del distretto senza avere alcun quadro plausibile di questi processi».
NEL FRATTEMPO, spiega Berardi, gli imprenditori pratesi hanno agito soprattutto sul contenimento dei costi e la flessibilizzazione del lavoro, la revisione del posizionamento dei prodotti (ma non in alto), la semplificazione delle strutture, la delocalizzazione e l’incremento dei semilavorati esterni, contraendo gli investimenti. La conclusione dell’analisi è drammatica: «Si è rotto il modello sociale ed economico del distretto, si è incrinato il rapporto redditi/lavoro, è saltato il patto di ‘governance’ locale. Ci si dovrebbe chiedere se il distretto c’è ancora». Secondo l’economista, «occorre promuovere un grande progetto di conoscenza e di analisi, per costruire una visione condivisa del futuro della città». Per Berardi e per i 38-1, questo potrebbe essere uno dei compiti dell’Agenzia strategica Prato (Aspo), che il gruppo propone di istituire, in modo da raccogliere le energie migliori della città e provare a costruire un futuro diverso.
LA PROVOCAZIONE MARKETING TERRITORIALE, INNOVAZIONE & C.: «ORMAI SOLO SLOGAN» «Quei ‘mantra consunti’ che sono come scatole vuote»
SONO impietose le riflessioni di Berardi (nella foto). «Negli ultimi anni — dice —, tra partiti, politica, istituzioni, rappresentanze imprenditoriali e sindacali, vi è stata una straordinaria condivisione degli slogan che, non solo è diventata via via più debole nel passare dalle enunciazioni agli strumenti, ma che è divenuta inconsistente davanti alla drammatica assenza di strategia reali e condivise». Parla di «mantra consunti», l’economista, e fa qualche esempio delle parole usate e abusate: il tessile di qualità, il tessile di nicchia, l’allungamento della filiera (anche coi cinesi), l’innovazione (prodotto, processo, organizzazione), la crescita dimensionale, le reti di imprese, la protezione del made in Italy, la logistica, il marketing territoriale, la formazione, la governance e la concertazione, le infrastrutture, la città della moda, il distretto della conoscenza. «Ovvero, scatole quasi vuote», è il suo commento.
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