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Obiettivo bipartisan: devastiamo il territorio
Ha ragione Salvatore Settis a criticare i governi (e soprattutto quello attuale) per la loro disattenzione ai problemi della tutela dei beni culturali e del paesaggio, nei confronti dei quali tutte le istituzioni della Repubblica - e quindi in primo luogo lo Stato - hanno rilevanti responsabilità costituzionali. E ha ragione a criticare, in particolare, il decreto legge 112/2008, che il Parlamento dovrà convertire fra poco. E si deve essere lieti che la stampa, grazie al contrasto tra Settis e gli uomini di Bondi, abbia dato rilievo alla sua critica. Preoccupa però il silenzio non solo dei media, ma anche della politica d'opposizione nei confronti di altri pesantissimi guasti provocati dalla linea di governo cui quel decreto dà le gambe. In particolare, dalle scelte di politica urbanistica che ne emergono. Due sono i binari sui quali corre il treno del berlusconismo urbanistico: libertà di costruire ovunque infrangendo ogni regola, e privatizzazione dei patrimoni pubblici territoriali.
Due obiettivi, due pratiche che costituiscono un dispositivo con pericolosi elementi di trasversalità partitica, testimoniato se non altro dall'indifferenza con la quale le opposizioni guardano a ciò che sta accadendo. Nella XIV legislatura si era riusciti a fermare la Legge Lupi, che privatizzava la pianificazione urbanistica e la consegnava ai promotori immobiliari. Nella XV, grazie ai parlamentari della sinistra e dei Ds si stava approdando a un risultato condiviso e convincente La XVI appare come quella che rende concreti - surrettiziamente - i progetti di sregolazione del territorio e privatizzazione dei beni pubblici teorizzato e avviato in Lombardia e abbracciato dal neoliberalismo all'italiana.
Che prevede in materia il decreto? Quattro articoli almeno incidono pesantemente sul territorio e sui beni comuni. Ne riassumo i contenuti. Il patrimonio di edilizia abitativa degli istituti delle case popolari deve essere venduto a prezzi stracciati: prioritariamente agli attuali inquilini, ma poi sul mercato libero (articolo 13). Comuni, province e regioni sono stimolati a redigere il Piano delle alienazioni immobiliari: per sopperire alle decrescenti risorse concesse dalla fiscalità statale sono sollecitati a vendere suoli ed edifici, modificando le destinazioni d'uso se serve ad accrescerne il valore di mercato: naturalmente, in deroga alla pianificazione urbanistica (articolo 58). Ma le deroghe sono ancora più consistenti per interventi ancora più suscettibili di indurre trasformazioni sull'assetto delle città e dei territori: chi vuole costruire una fabbrica o un albergo - o una pluralità di fabbriche e di alberghi - su una parte del territorio dove la pianificazione urbanistica prevede altre utilizzazioni, e magari la presenza di beni culturali e paesaggistici e le condizioni di rischio prescrivano tutele, può farlo con procedure acceleratissime e senza praticamente la possibilità di interferire nel processo della decisione, sostanzialmente affidata all'autocertificazione (articolo 38). Ulteriori deroghe e ulteriori trasferimenti di risorse dal pubblico al privato promuove il "piano casa": per realizzare edilizia sociale i comuni sono sollecitati a cedere suoli (magari destinati a spazi pubblici o al verde o all'agricoltura) a imprese private che si impegnino a realizzare edilizia residenziale da assegnare a determinate categorie di utenti a prezzi concordati; trascorso un decennio, entreranno in pieno possesso degli immobili realizzati con le aree, le edificabilità e le risorse finanziarie della collettività (articolo 11).
Qual è il significato di queste norme? E' lo stravolgimento di regole, procedure e pratiche che furono avviate nell'ambito dello stato liberale tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, con i primi piani regolatori, gli espropri per pubblica utilità, la realizzazione di edilizia residenziale pubblica, i primi vagiti della tutela de beni culturali e del paesaggio. L'evoluzione proseguì nell'epoca fascista, con l'ampliamento degli interventi di edilizia sociale, le leggi di tutela dei beni artistici e storici e del paesaggio, una più matura disciplina urbanistica. Si sviluppò - conclusa la fase anch'essa per altri versi devastatrice della ricostruzione postbellica - nel nuovo clima della democrazia popolare e di massa con il consolidamento e la generalizzazione della pianificazione urbanistica, un coerente dispositivo di intervento pubblico nell'edilizia abitativa finalizzato a soddisfare in modo differenziato le diverse fasce di esigenze, l'introduzione generalizzata delle tutele tra le componenti prioritarie dell'uso programmato del territorio.
Un'evoluzione che non aveva condotto ancora a un quadro privo di contraddizioni e di carenze. Non era stato risolto il nodo dell'appropriazione privata delle rendite causate dalle scelte e dagli investimenti pubblici. Si erano comunque tenuti fermi, e anzi consolidati, due cardini: il primato delle decisioni e degli interessi pubblici nel governo delle trasformazioni del territorio e nella garanzia, attraverso la pianificazione, di una sua visione sistemica, la presenza e l'allargamento di una quota del patrimonio immobiliare di proprietà collettiva. Sono questi due cardini che la politica urbanistica promossa del governo Berlusconi IV sta precipitosamente smantellando. Esistono nella maggioranza parlamentare e di governo spazi che possano far pensare a correzioni di questa linea? Francamente non se ne vedono. Lo stesso Bondi, cui Settis sembra dare un qualche credito, non ha mancato occasione per rilasciare dichiarazioni da cui emerge che per lui i beni culturali vanno difesi solo perché producono reddito, che il ricorso agli operatori privati è visto come la soluzione d'ogni problema, che il ruolo di presidi territoriali svolto dalla gestione pubblica del patrimonio culturale per lui è del tutto irrilevante, e che alle regole di un'urbanistica volta alla tutela dei beni comuni e alla vivibilità per tutti bisogna preferire, e sostituire, la creatività degli architetti capaci di colpire l'immaginazione con la gestualità dell'oggetto bizzarro.
Come si può reagire a questa deriva? Il clima è pesantissimo. Regioni, province, comuni, cui è affidata la gestione delle norme perverse del decreto, potrebbero limitarne i danni. Ma le prime si battono per strappare allo Stato pezzi di autonomia che poi, in materia di governo del territorio, subdlegano ai comuni o addirittura alle imprese, rinunciando alla pratica politica della pianificazione del territorio. Le province vivacchiano nell'incertezza del loro destino. I comuni sono abbandonati alla contraddizione tra lo strangolamento finanziario e le aspettative della popolazione in materia di welfare, oggettivamente sollecitati a svendere il territorio agli interessi della rendita per ottenere un po' d'ossigeno. Su tutto grava la pesante nuvola di un'ideologia, largamente condivisa, che vede nella crescita del PIL l'unica speranza di salvezza e nel mercato l'unico regolatore di ogni attività sociale.
Se la reazione non comincia dalla politica il malessere popolare assumerà sempre di più le forme dell'antipolitica: per colpa non di chi protesta, ma di chi alle proteste si rivela incapace di rispondere.
Edoardo Salzano (18/07/08)
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