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da il Tirreno del 21/05/09
«Produco in Polonia, ma assumo anche qui» Picchi rivendica la sua scelta di delocalizzare una parte della filiera Gli artigiani lamentano la trasformazione dei committenti in commercianti di tessuti «Ma diversamente non avremmo resistito»
PRATO. Fino a ieri committenti, oggi commercianti del prodotto tessile. Danno il lavoro all’estero per spendere meno, mentre le fasi della nobilitazione e rifinizione del tessuto rimangono a Prato. Il metodo di alcuni di questi industriali è una ferita che brucia come sale sulle imprese terziste, tanto più in un momento di crisi acuta per il distretto. Rabbia e sconforto del mondo artigiano erano emerse in tempi non sospetti, in una lettera congiunta firmata da Cna e Confartigianato.
Non si facevano nomi e cognomi nella lettera inviata al tavolo di distretto e che poi ha prodotto l’assenza degli industriali all’incontro, ma si attaccavano «importanti industrie locali, diventate ormai grandi grossiste commerciali abdicando al ruolo di committenti industriali». Ci sono anche imprenditori che per queste scelte viaggiano a testa alta. Non è un mistero che Piero Picchi, titolare dell’omonimo lanificio, abbia deciso anni fa di delocalizzare parte della sua azienda in Polonia. Laggiù la manodopera costa meno, per questo la prima fase della filiera tessile, quella della lavorazione conto terzi, si è sviluppata in proprio ed è stata incorporata in un ramo della produzione aziendale. Insomma, tutto si fa in casa. Una strategia aziendale che forse a suo tempo costò cara a qualche terzista pratese, che dovette dire addio alle commesse di questo lanificio. E così il 50% del tessuto di Picchi viene fatto produrre a Prato, la rimanente metà in Polonia. «Ma - controbatte Picchi - non mi sento certo in colpa per aver deciso di delocalizzare anni fa. Non mi si può rinfacciare di aver sottratto ricchezza da Prato. Anzi: la produzione polacca si muove in totale sinergia con quella pratese, consentendo di reinvestire gli utili nell’azienda di Prato. Non è un caso che, in controtendenza con l’andamento occupazionale nel distretto, abbia dovuto rafforzare ultimamente il mio organico, assumendo una decina di persone negli stabilimenti pratesi».
Intanto i telai che girano a pieno ritmo in Polonia gli fanno risparmiare una buona metà dei costi di produzione. Non c’è paragone, secondo l’industriale, soprattutto per i prezzi di manodopera. La sua è un’esperienza emblematica, quella del committente pratese che ha acquistato specifici segmenti di produzione. Con buona pace dei tessitori, che vedono ridursi progressivamente la loro capacità produttiva. E l’equilibrio nei rapporti di forza tra committenti e terzisti, complice la crisi più grave degli ultimi mesi, diventa così sempre più precario. Per 32 anni il lanificio Fedora ha dato lavoro alla tessitura Nenciarini. Poi, con la delocalizzazione delle aziende di Nardi in Cina e in India, niente più commesse. «Ma alla fine nel distretto si produrrà una sorta di effetto boomerang, nella misura in cui sarà a rimetterci chi decide di fare soldi singolarmente, a scapito di chi invece continua a investire e produrre ricchezza sul territorio»: è questo l’avvertimento di Giovanni Nenciarini, per tanti anni presidente della Confartigianato di Prato, ora nel ruolo super partes di vicepresidente della Camera di commercio. La sua è un’analisi maturata sul campo, essendo lui stesso un artigiano tessitore.
«Occorre un patto per la filiera, dando forza all’anello più debole del conto terzi: il mercato non può essere solo a favore di alcuni settori. Soprattutto sulle collezioni del primaverile e dell’estivo, come per i lini, la tendenza è quella di far lavorare il prodotto in proprio o sfruttando gli impianti all’estero. E poi magari - fa osservare Nenciarini - sono le stesse aziende che in Italia beneficiano dei fondi per la cassa integrazione dei loro dipendenti».
Maria Lardara
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