La strage nascosta
di Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli
5.700 morti, 900 mila feriti, oltre tre milioni e mezzo di incidenti: i dati delle assicurazioni svelano il massacro quotidiano che avviene sulle strade
Come stiano veramente le cose lo spiega la Fondazione per la sicurezza stradale dell'Ania, l'associazione delle compagnie assicurative, che di incidenti nel 2007 ne conta quasi tre milioni e 700 mila. Non il doppio, ma 16 volte più di quelli censiti ufficialmente: il contatore dell'Istituto nazionale di statistica si ferma appena a 230 mila, ossia solo dove c'è stato l'intervento di carabinieri e polizia. I danni dovuti a tamponamenti e scontri frontali sono enormi. Ma il prezzo in vite umane è sconvolgente. "Pure il conto delle vittime è sottostimato", sostiene Franco Taggi dell'Istituto superiore di sanità: "In media il 10 per cento dei decessi sfugge alle statistiche". Il che significa 600 morti in più rispetto ai 5.131 noti finora: il valore più alto nell'Unione dopo la Polonia. Anche qui l'Istat non riesce a fotografare il fenomeno, perché segue il destino dei feriti solo per un mese, mentre gli effetti degli incidenti uccidono anche più tardi.
Le ferite che restano
Sui feriti, poi, il salto lascia sbalorditi. Triplicano, arrivando poco al di sotto del milione, dai 325 mila di partenza. Di loro, 15 mila sono invalidi permanenti: i segni dello scontro se li porteranno addosso per sempre, uno degli aspetti più drammatici e dimenticati di un bilancio che grava sulle famiglie e sullo Stato. I costi sociali - spese sanitarie e burocratiche, il danno morale e quello fisico, nonché tutto il lavoro che caduti e sopravvissuti non potranno più svolgere - rappresentano nell'insieme un ammanco imponente che solo nel 2007, per la Fondazione Ania, tocca i 30 miliardi di euro (cioè il 2 per cento della ricchezza che produciamo ogni anno).
Le vittime più deboli
Fra quelli che in Italia le bravate al volante le hanno pagate con la vita c'è stato pure l'equivalente di un'intera scuola: in un anno sono morti 130 bambini, secondo la stima dell'Aci. Non garantire la sicurezza dei più piccoli ci condanna alla vergogna in Europa, dove negli ultimi dieci anni siamo stati i peggiori. Perché il nostro non è certo un Paese per ragazzini. E tanto meno per vecchi, soprattutto quelli che in giro ci vanno a piedi. Fra i pedoni, infatti, sono gli anziani i più vulnerabili: e costituiscono oltre la metà di chi ci rimette la pelle e il 30 per cento dei feriti. In particolare, la fascia d'età compresa fra i 75 e i 79 anni è quella più a rischio. Quando però l'anziano dal marciapiede sale al volante, ecco che a rischio ci mette pure gli altri. Tant'è vero che, in un'audizione parlamentare, la Fondazione Ania ha sentito di dover raccomandare maggiori controlli sulle loro condizioni di salute. Nel 2007, ad esempio, in Italia sono morti 626 guidatori con più di settant'anni.
Weekend killer
Molti altri invece non ce l'hanno neppure, il tempo di invecchiare. Perché un terzo delle vittime delle corse sfrenate sono proprio i giovani. Colpa, spesso, della diffusione di alcol e droga, e questo in misura di gran lunga superiore a quanto non venga detto. Uno su tre si schianta in preda all'ebbrezza, denuncia l'Istituto superiore di sanità, contro lo scarno 2 per cento riportato dall'Istat. "Il fatto è che ad esempio a chi muore non sempre si fa l'autopsia, e anche allora non è detto venga misurato il tasso alcolemico", spiega Taggi. Ed è triste ma vero che per molti di loro la propria storia si conclude sulla carreggiata in un fine settimana qualsiasi: il 35 per cento delle vittime della strada si concentra nei due giorni festivi. Oltre a quella dei weekend, di strage ce n'è un'altra di cui non si parla mai, forse perché meno appariscente. Tuttavia nel 2007 ha fatto oltre un migliaio di vittime tra la folla di chi semplicemente torna a casa dopo una giornata di lavoro, nella fascia oraria fra le 5 e le 7 di sera. Quasi 70 mila inoltre i feriti lasciati sul campo dall'esercito di pendolari che rincasa. Di paragoni per rendere l'enormità di questa strage a puntate ne sono stati fatti tanti: due volte il crollo delle Torri gemelle, 20 volte il terremoto in Abruzzo. Il fatto è che la patente è un porto d'armi, e dalle nostre parti le automobili lasciano più morti sull'asfalto dei rumorosi omicidi: il 79 per cento delle morti traumatiche contro meno di quel 10 per cento di vittime delle pallottole. "Il parallelo fra un'arma e una macchina non è poi così azzardato", argomenta Giordano Biserni, presidente dell'Asaps, gli amici della stradale: "Anche se fra una vettura e una pistola c'è una fondamentale differenza: la prima la sanno usare tutti, la seconda no. A una certa distanza, tra un auto in arrivo e un proiettile, datemi la pallottola. Perché il tiratore più è scarso e più è facile che ti manchi. Il conducente più è scarso, più è facile che ti prenda in pieno". E nella maggior parte dei casi, anche solo a 50 chilometri orari il risultato è comunque lo stesso. Si muore.
Sicurezza tradita
Il divario tra le vittime delle armi da fuoco e quelle degli investimenti stradali fa riflettere sull'attuale definizione politica della parola 'sicurezza'. Che si concentra sugli uni e dimentica gli altri. In Italia, 'annunci del lunedì' a parte, c'è un abisso fra le dichiarazioni e i fatti. L'impegno preso in Europa nel 2001 di dimezzare le vittime del traffico entro il 2010 è ancora lontano e non sarà raggiunto. Secondo i dati dello European Transport Safety Council, l'Italia è ferma al 32 per cento in meno rispetto alla Francia che ha già praticamente raggiunto l'obiettivo, alla Spagna che è in dirittura d'arrivo, e persino alla Germania. I benefici effetti della patente a punti, inoltre, si stanno esaurendo. Come avverte la Fondazione Ania, si è spento l'effetto novità, si sono allentati i controlli, ed è troppo facile riguadagnare i punti persi. I controlli, appunto. È questa una chiave per rallentare il contatore delle vittime. Il progressivo aumento dei posti di blocco e dei test alcolemici, ad esempio, ha permesso ai francesi di dimezzare i loro lutti. Oltralpe hanno superato la soglia dei cinque milioni di test, con l'ambizioso obiettivo di arrivare a otto. In Italia invece siamo parecchio dietro, nonostante l'enorme recupero degli ultimi tempi. Tre anni fa polizia e carabinieri fermavano solo 240 mila guidatori l'anno, cifra cresciuta esponenzialmente fino a sfiorare il milione e 400 mila del 2008. I risultati non sono tardati: nello stesso periodo il numero di morti e feriti è costantemente diminuito. La ricetta quindi sembra quella giusta, e la Fondazione Ania indica un livello ottimale di controlli per il nostro Paese: per avere un buon effetto deterrenza ogni anno ne servirebbero almeno tre milioni e mezzo. Purtroppo però la risposta del governo è in netta controtendenza, visto che l'ultima Finanziaria ha tagliato risorse alla sicurezza stradale. "Eppure investire di più oggi ci farebbe risparmiare domani in euro, ma soprattutto in vite umane", nota Sandro Salvati della Fondazione Ania. Come succede a chi punta sulla tecnologia. A detta di molti lo strumento principe sembra essere l'ormai famoso Tutor. Col nuovo sistema di rilevazione della velocità, Autostrade per l'Italia fa sapere di aver ridotto del 50 per cento la mortalità, e assicura che ne farà uso sempre più esteso. Altrettanto convinti all'Anas: nei prossimi mesi partirà la sperimentazione su alcune 'vie della morte', come la Romea, l'Aurelia e la Domiziana.
La lista nera delle strade
Del resto le strade pericolose contribuiscono fortemente al tributo di sangue versato ogni anno. In Italia ce ne sono troppe, e con assiduità forniscono materiale per la cronaca nera. Si stima infatti che la stragrande maggioranza degli incidenti (circa l'80 per cento) si verifichi su un numero limitato di arterie (il 20). Ma quali sono i killer d'asfalto? L'Aci ha provato a stilare un elenco. Fra le autostrade cittadine primeggia la Tangenziale di Napoli, seguita da alcuni tratti del Grande raccordo anulare romano. Attenti anche su quelle extraurbane, in particolare se si viaggia sulla Torino-Trieste. Passando alle statali, due volte più rischiose delle autostrade, in testa alla classifica si trova la Tiburtina, fra Roma e Tivoli, seguita dalla famigerata Jonica, nel tratto che solca il Crotonese. Meglio starsene in città? Non proprio: nei centri urbani si verifica la maggior parte di tamponamenti e affini. Basti pensare, lo scrive la Fondazione Ania, che in Italia ogni quattro incidenti con danni alle persone, tre avvengono in ambito urbano. Anche in questo caso il raffronto con l'Europa ci penalizza: secondo uno studio Eurostat, Roma è la capitale dove si muore di più sulla strada. E dove negli ultimi dieci anni sono stati fatti meno passi avanti quanto a prevenzione.
Niente prevenzione, ossia l'altra chiave del problema. Forse per questo, secondo dati dell'Osservatorio il Centauro Asaps, dei 21 casi che a metà di questo mese hanno mestamente spinto il Lazio al primo posto in classifica per pirateria stradale, 17 si sono verificati nella capitale. La piaga però riguarda l'intero Paese, e dopo il record 2008 (in tutta Italia 323 episodi, con 98 morti e 331 feriti) non accenna a diminuire. Oggi siamo già a quota 116, con 21 persone uccise e 152 ricoveri. A tragedia avvenuta, che il pirata venga frequentemente identificato (nel 72 per cento dei casi) è consolazione tardiva. Ma sempre in nome della prevenzione, aiuterebbe capire cos'è che non va nella nostra guida. Ci viene incontro l'Istat, che in cima alle cause di morte pone l'eccesso di velocità. Subito dopo però troviamo la guida distratta. E per chi è al volante è immediatamente chiaro che la distrazione ha un nome: telefonino. "Parlare al cellulare rappresenta un pericolo enorme", avverte Taggi: "È come guidare con il doppio del limite massimo di alcol nel sangue. Il rischio incidente aumenta quattro volte".
Presunzione d'incolumità
Controlli a parte, come sottolinea il vicequestore della Stradale Elisabetta Mancini, "c'è tanto lavoro da fare da un punto di vista culturale". "Il primo nodo da sciogliere è la nostra fatalistica presunzione d'incolumità", osserva Gioia Longo Di Cristofaro, docente di antropologia culturale a La Sapienza di Roma: "Ad esempio basterebbe spiegare che cosa significa 'perdere la faccia'. Quando a uno studente, o persino al tassista più navigato, fai capire che senza cinture rischia di deturparsi il viso, e gli parli degli interventi maxillo-facciali di cui poi avrà bisogno, vedi che cambia espressione e si mette la cintura". Ovviamente, però, è tutto vano "se all'informazione sugli obblighi non seguono i controlli, perché sennò ai giovani la società risulta incoerente, ergo poco credibile". Altra questione culturale, per l'antropologa, è il rapporto con l'automobile stessa. "Mentre per la donna è un mezzo di servizio, per l'uomo l'auto è biglietto da visita, totem o protesi meccanica: fa vedere 'chi sei'. I Suv sono l'apice di questo approccio".
Tra Suv e minicar
Già, i gipponi: sicuri dentro, e inarrestabili fuori, soprattutto quando la loro mole in città diventa un rischio per chi cammina o va in bicicletta. Contro questa categoria gli strali di Altroconsumo: "Le vetture sottoposte a crash test manifestano un punto critico generale: la sicurezza di pedoni e ciclisti. E i produttori non fanno ancora abbastanza". Dagli elefanti alle formiche, nulla cambia. Le minicar che scorrazzano per le nostre grandi città sono vere e proprie mine vaganti: fanno il doppio degli incidenti di un auto normale. Spesso vengono regalate ai ragazzi e affollano i parcheggi dei licei: 'pistole' giocattolo, insomma, ma molto più pericolose di quelle vere.
(23 aprile 2009)
Da L'Espresso
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