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La mer, la fin...

venerdì 1 maggio 2009

Primo Maggio. Diritto alla disoccupazione utile

da "Disoccupazione creativa", di Ivan Illich, 1978

Il diritto alla disoccupazione utile

Attualmente ogni nuovo bisogno convalidato dalle pro­fessioni si traduce prima o poi in un diritto. Tale diritto,una volta che sotto la pressione politica trova riconosci­mento nella legge, dà luogo a nuove occupazioni e nuovi prodotti. Ogni nuovo prodotto degrada un'attività con la quale la gente era stata fin allora capace di cavarsela da sola; ogni nuovo impiego rende illegittimo un lavoro sin lì svolto da non-occupati. Il potere delle professioni di stabilire che cosa sia bene, giusto e da fare distorce nell’uomo “comune” il desiderio, la voglia e la capacità di vivere secondo le proprie possibilità.

Quando tutti gli studenti attualmente iscritti nelle fa­coltà di giurisprudenza degli Stati Uniti si saranno lau­reati, il numero degli esperti di diritto statunitensi au­menterà del 50 per cento circa. Al servizio nazionale di assistenza sanitaria si affiancherà un analogo servizio di assistenza legale, man mano che l'assicurazione contro i procedimenti giudiziari diventerà indispensabile quanto lo è ora quella contro le malattie. E una volta stabilito il diritto del cittadino a un avvocato, comporre un litigio all'osteria sarà considerato retrogrado e antisociale come lo è adesso partorire in casa. Già ora il diritto riconosciuto a ogni cittadino di Detroit di vivere in un appartamento dove l'impianto elettrico sia stato installato da professio­nisti trasforma in trasgressore della legge chiunque si per­metta di montare da sé una presa. La perdita progressiva di tutta una serie di libertà d'essere utili altrove che in un “posto di lavoro”, o al di fuori del controllo profes­sionale, anche se non ha un nome è una delle esperienze più penose che s'accompagnano alla povertà modernizzata.

Il privilegio più significativo d'una condizione sociale ele­vata potrebbe ormai identificarsi in qualche resto della libertà, sempre più negata alla maggioranza, di essere utili senza avere un impiego. A furia di insistervi, il diritto del cittadino a essere assistito e approvvigionato si è quasi tra­mutato in diritto delle industrie e delle professioni a prendere la gente sotto la propria tutela, a rifornirla del loro prodotto e a eliminare, con le loro prestazioni, quelle condizioni ambientali che rendono utili le attività non inquadrabili in una “occupazione”. Si è così riusciti a paralizzare, per il momento, ogni lotta per un'equa distri­buzione del tempo e della possibilità di essere utili a sé e agli altri al di fuori di un impiego o del servizio mili­tare. Il lavoro che si svolge al di fuori del «posto» retri­buito è malvisto quando non ignorato. L'attività autonoma minaccia il livello dell'occupazione, genera devianza e fal­sa il PNL: è quindi improprio chiamarla “lavoro”. La­voro non vuol più dire sforzo o fatica, ma è quell'arcano fattore che, congiungendosi col capitale investito in un impianto, lo rende produttivo. Non significa più la crea­zione di un valore percepito come tale dal lavoratore, ma più che altro un impiego, cioè un rapporto sociale. Non avere un impiego significa passare il tempo in un triste ozio, e non essere liberi di fare cose utili a sé o al proprio vicino. La donna attiva che manda avanti la casa, alleva i propri figli ed eventualmente ha cura di quelli degli altri è distinta dalla donna che lavora, ancorché il prodotto di tale lavoro possa essere inutile o dannoso. L'attività, gli sforzi, le realizzazioni, i servizi che si esplicano al di fuori di un lavoro gerarchico e che non sono misurabili secondo standard professionali costituiscono una minaccia per una società ad alta intensità di merci: la creazione di valori d'uso sottratti a un calcolo preciso pone infatti un limite non soltanto al bisogno di ulteriori merci, ma anche ai posti di lavoro che producono tali merci e alle buste-paga occorrenti per acquistarle.

Ciò che conta in una società ad alta intensità di mer­cato non è lo sforzo rivolto a produrre qualcosa che piac­cia, o il piacere che deriva da tale sforzo, ma l'accoppia­mento della forza lavoro col capitale. Ciò che conta non è il conseguimento della soddisfazione che procura l'agire, ma la collocazione nel rapporto sociale che presiede alla produzione, cioè l'impiego, il posto, la carica, l'ufficio. Nel Medioevo, quando non c'era salvezza al di fuori della Chiesa, riusciva arduo ai teologi spiegare come si rego­lasse Iddio con i pagani di costumi manifestamente vir­tuosi o santi; allo stesso modo nella società odierna nes­suno sforzo è produttivo se non è fatto su ordine di un. capo, e gli economisti non riescono a dar conto della palese utilità della gente che non agisce sotto il controllo di un'azienda, di un'organizzazione di volontari o di un campo di lavoro. Il lavoro non è produttivo, rispettabile, degno di un cittadino se non quando è programmato, di­retto e controllato da un rappresentante delle professioni, il quale garantisca che risponde in forma standardizzata a un bisogno riconosciuto. In una società industriale avan­zata diventa quasi impossibile cercare o anche soltanto immaginare di fare a meno di un impiego per dedicarsi a un lavoro autonomo e utile. L'infrastruttura della società è combinata in maniera tale che solo l'impiego dà accesso agli strumenti di produzione, e questo monopolio della produzione di merci sulla creazione di valori d'uso non fa che consolidarsi quando la gestione passa allo Stato. Solo. con un certificato di abilitazione puoi insegnare a un bambino; solo in una clinica puoi rimettere a posto una gamba rotta. Il lavoro domestico, l'artigianato, l'agri­coltura di sussistenza, la tecnologia radicale, il mutuo in­segnamento ecc. sono degradati ad attività per gli oziosi, per gli improduttivi, per i più. diseredati o per i più ricchi. La società che promuove un intensa dipendenza dalle merci tramuta così i suoi disoccupati in poveri o in assistiti. Nel 1945 per ogni americano mantenuto dalla previdenza sociale c'erano 35 lavoratori attivi; nel 1977, erano 3,2 i lavoratori occupati cui toccava mantenere uno di questi pensionati, dipendente a sua volta da una quantità di enti assistenziali che sarebbe stata inimmaginabile ai tempi di suo nonno.

Ormai il carattere di una società e della sua cultura dipenderà dalla condizione dei suoi non-occupati: saranno essi i cittadini produttivi più rappresentativi o saranno degli assistiti? Ancora una volta la scelta (la crisi) appare chiara: la società industriale avanzata può proseguire sulla scia del sogno integralista degli anni '60: sempre più si­mile a una holding, può degenerare in un sistema di di­stribuzione che assegna parsimoniosamente un volume di beni e di posti in costante diminuzione e che addestra i suoi membri a consumi più standardizzati e a lavori più inutili. E l'orientamento cui si ispirano le linee politiche della maggior parte dei governi, dalla Germania alla Cina, sia pure con una differenza di fondo nella gradazione:quanto più infatti il paese è ricco, tanto più sembra ur­gente contingentare l'accesso agli impieghi e impedire l'atti­vità utile dei non-occupati suscettibile di recare pregiudi­zio all'occupazione. Ovviamente è altrettanto possibile il contrario: cioè una società moderna nella quale i lavoratori frustrati si organizzino per proteggere la libertà di essere utili senza partecipare alle attività che danno luogo alla produzione di merci. Ma, ancora una volta, questa alternativa sociale presuppone, da parte dell'uomo comune, una competenza nuova, razionale e cinica nei riguardi dell'imputazione professionale dei bisogni.

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