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La mer, la fin...

domenica 20 luglio 2008

Petrolio e guerra. di Naomi Klein

Gli accordi di Big Oil in Iraq sono la più grande rapina della storia
Quelli che hanno invaso il Paese dovrebbero pagare miliardi di risarcimenti, non utilizzare la guerra come un motivo per saccheggiare la sua principale ricchezza
di Naomi Klein

4 luglio 2008
Non appena il petrolio ha superato i 140 dollari al barile, anche i più rabbiosi conduttori di destra hanno dovuto dimostrare la loro credibilità populista dedicando una parte di ogni trasmissione ad attaccare violentemente Big Oil [termine con cui negli Usa vengono definite le grosse multinazionali del petrolio NdT]. Qualcuno si è spinto fino a invitarmi a partecipare a una chiacchierata amichevole su un nuovo insidioso fenomeno: il “capitalismo dei disastri”. Solitamente va bene – fino a prova contraria.
Per esempio, il conduttore radiofonico Jerry Doyle, un “conservatore indipendente”, e io stavamo chiacchierando amabilmente sulle squallide compagnie assicurative e sui politici inetti, quando è successo questo: “Credo di avere un modo rapido per abbattere i prezzi”, ha annunciato Doyle. “Abbiamo investito 650 miliardi di dollari per liberare un Paese di 25 milioni di persone, non dovremmo pretendere che ci diano il petrolio? Dovrebbero esserci autocisterne su autocisterne, in fila una dietro l’altra nel Lincoln Tunnel, il puzzolente Lincoln Tunnel, all’ora di punta, con biglietti di ringraziamento da parte del governo iracheno.. Perché non ci prendiamo il petrolio e basta? Ci abbiamo investito liberando un Paese. Posso risolvere il problema dell’abbassamento del prezzo della benzina in dieci giorni, non in dieci anni”.
Naturalmente c’erano un paio di problemi rispetto al piano di Doyle. Il primo era che stava descrivendo la più grande rapina nella storia mondiale. Il secondo riguardava il fatto che Doyle era in ritardo. “Noi” stiamo già rapinando il petrolio dell’Iraq, o comunque siamo sul punto di farlo.È iniziata con l’annuncio di contratti di servizio senza gara d’appalto per ExxonMobil, Chevron, Shell, BP, e Total (devono ancora essere firmati ma le cose procedono). Pagare le multinazionali per la loro expertise tecnica non è in sé una cosa insolita: quello che è strano è che contratti di questo tipo, quasi sempre, vanno a compagnie di servizi petroliferi – non alle major del petrolio, il cui lavoro è esplorare, produrre, e possedere la ricchezza derivante dal carbone. I contratti hanno un senso solo nel contesto delle informazioni secondo le quali le major del petrolio avrebbero insistito sul diritto di opzione per i successivi contratti distribuiti per gestire e produrre i giacimenti petroliferi iracheni.
In altre parole, altre compagnie saranno libere di fare un’offerta per questi futuri contratti, ma saranno queste compagnie a vincere.
Una settimana dopo che gli accordi senza gara d’appalto erano stati annunciati, il mondo ha intravisto per la prima volta il vero premio. Dopo anni di forti pressioni dietro le quinte, l’Iraq sta ufficialmente spalancando sei dei suoi principali giacimenti, che costituiscono la metà delle sue riserve conosciute, agli investitori stranieri. Secondo il ministro iracheno del Petrolio, i contratti a lungo termine verranno firmati entro un anno. Anche se apparentemente sotto il controllo dell’Iraq National Oil Company, le corporation straniere manterranno il 75% del valore dei contratti, lasciando solo il 25% ai loro partner iracheni. Questo tipo di rapporto è senza precedenti nei Paesi arabi e persiani ricchi di petrolio, dove l’aver raggiunto il controllo di maggioranza da parte dello Stato sul petrolio è stata la vittoria che ha caratterizzato le lotte contro il colonialismo.
Secondo Greg Muttitt, un esperto petrolifero che vive a Londra, il presupposto finora era che le multinazionali straniere sarebbero state fatte entrare per sfruttare nuovi giacimenti in Iraq - non per acquisire il controllo di quelli che sono già in produzione, e che quindi richiedono un supporto tecnico minimo. “La politica era sempre di assegnare questi giacimenti all’Iraq National Oil Company”, mi ha detto. “Questa è una completa inversione di tendenza rispetto a quella politica, che dà all’INOC un mero 25% invece del 100% previsto”.
Allora cosa rende possibili tali schifosi accordi in Iraq, che ha già sofferto tanto? Paradossalmente, è la sofferenza dell’Iraq - la sua crisi senza fine – la giustificazione che sta alla base di un accordo che minaccia di prosciugare le casse dello Stato iracheno della sua principale fonte di entrate.
La logica è la seguente: l’industria petrolifera irachena ha bisogno di expertise straniera, in quanto anni di sanzioni punitive l’hanno privata di nuove tecnologie, mentre l’invasione e la violenza che continua l’hanno ulteriormente degradata. E l’Iraq ha bisogno di iniziare con urgenza a produrre più petrolio. Perché? Di nuovo a causa della guerra. Il Paese è a pezzi, e i miliardi distribuiti con i contratti senza gara d’appalto a imprese occidentali non sono riusciti a ricostruirlo. Ed è qui che entrano in gioco i nuovi contratti: porteranno più soldi, ma l’Iraq è diventato un posto talmente pericoloso che le major petrolifere devono essere invogliate ad assumersi il rischio di investire. Così, l’invasione dell’Iraq crea precisamente l’argomentazione per il suo successivo saccheggio.
Molti degli architetti della guerra in Iraq non si prendono neanche più la briga di negare che il petrolio è stato una delle principali motivazioni dell’invasione. A “To the Point”, un programma della National Public Radio Usa, Fadhil Chalabi, uno dei principali consulenti iracheni dell’amministrazione Bush nel periodo che ha preceduto l’invasione, di recente ha definito la guerra “una mossa strategica da parte degli Stati Uniti d’America e del Regno Unito per avere una presenza militare nel Golfo al fine di garantire gli approvvigionamenti [di petrolio] in futuro”. Chalabi, che è stato sottosegretario al Petrolio, e ha incontrato le major petrolifere prima dell’invasione, lo ha definito “un obiettivo primario”.
Invadere Paesi per impadronirsi delle loro risorse naturali è illegale secondo le Convenzioni di Ginevra. Questo significa che il compito immane di ricostruire le infrastrutture irachene – comprese quelle petrolifere - è responsabilità finanziaria di coloro che hanno invaso l’Iraq. Dovrebbero essere costretti a pagare risarcimenti, proprio come il regime di Saddam Hussein ha pagato 9 miliardi di dollari al Kuwait come risarcimento per l’invasione del 1990. Invece l’Iraq è costretto a vendere il 75% del suo patrimonio nazionale per pagare i conti della sua stessa invasione e occupazione illegale.
(Traduzione di Ornella Sangiovanni)

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