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La mer, la fin...

sabato 7 febbraio 2009

Oltre il giardino. Guerre dimenticate: lo stupro come arma di guerra in Congo


da il Corriere.it
reportage esclusivo di «io donna» dallo Stato africano dove si combatte da dieci anni
Congo, l'inferno nel nostro corpo La donna è un campo di battaglia. Lo stupro una strategia di guerra

«Devo proteggermi» sussurra l’uomo in camice bianco. «Ho imparato a essere insensibile per poter curare pazienti che perdono urina e materia fecale dopo che lo stupro di gruppo le ha lacerate. Donne torturate con bastoni, coltelli, baionette esplose dentro i loro corpi rimasti senza vagina, vescica, retto. Ragazze alle quali devo dire: mademoiselle, lei non ha più un apparato genitale, non diventerà mai una donna». Dieci anni fa, una giovane violentata a cento metri da qui si è trascinata da lui. Da allora, nel suo ospedale Panzi a Bukavu, il ginecologo Denis Mukwege ha operato 25 mila vittime di stupri efferati e ne ha medicato altrettante nei villaggi, condannato a leggere nei loro corpi gli scempi di questo cruciale lembo d’Africa, l’est della Repubblica Democratica del Congo.

Si combatte dal 1998 nel Nord e nel Sud del Kivu, fuori dalle città di Goma e Bukavu, sulle rive di un lago beffardamente incantevole a ridosso della frontiera con il Ruanda. Cinque milioni di morti dal ’98 al 2002, nel conflitto più sanguinoso del globo dopo la seconda guerra mondiale. Poi i ribelli impazziti, i villaggi cancellati, la missione dell’Onu Monuc - la più imponente, con 17 mila caschi blu - capace solo di contare i morti dopo battaglie sbrigativamente attribuite a faide etniche e che invece mirano al controllo di immense e maledette ricchezze minerarie: oro, tantalio, diamanti. Lo stupro, qui, è l’arma affilata di una guerra che da tempo ha perduto la linea del fronte. La strategia primordiale di tutte le sigle paramilitari che annidano plotoni assassini nel cuore di tenebra della foresta equatoriale. Stuprano i ribelli del Cndp del generale Nkunda, appena messo fuori gioco dai suoi storici alleati ruandesi, e forse - mentre scriviamo - già ammazzato o spedito in un esilio dorato. Stuprano le milizie della Fdlr, gli hutu responsabili del genocidio ruandese del ’94 fuggiti in Congo. Stuprano i Mai Mai, combattenti filogovernativi, allucinati da riti tribali. E stupra l’esercito regolare.

Violenza sistematica, compiuta davanti a figli e mariti: annientare le donne è un metodo veloce e sicuro per riuscire a mutilare intere comunità, spaccandole in un’invincibile vergogna. Il presidente congolese Joseph Kabila ha appena autorizzato l’esercito ruandese a entrare in Congo per sgominare gli hutu della Fdlr, come promessa di pace per il Kivu, ma la sua gente non si aspetta che altri morti, altri inferni. «Perché chiamare qui i ruandesi a risolvere un loro problema? » si chiede Mathilde Muhindo, che si è dimessa dal Parlamento disgustata dall’immobilismo di Kinshasa e da sempre assiste le vittime di stupro nel Centro Olame della diocesi di Bukavu. «Perché il governo è sceso a patti con Bosco Ntaganda, l’antagonista di Nkunda, ricercato dalla Corte dell’Aja per crimini contro l’umanità? È triste che nella nostra terra chiunque sia autorizzato a fare ciò che vuole, esattamente come i militari sul corpo delle donne».

Corpi sfioriti come quello di Elise Mukumbila, maschera di rughe e livore: nelle credenze tribali, forzare un’anziana porta ricchezza, così i Mai Mai hanno abusato di Elise per mesi, nella foresta a nord di Goma, lasciandole l’Hiv. La incontro a Goma, nel piccolo centro di Univie Sida, associazione locale che convince le donne sieropositive del fatto che la vita può, deve continuare. E corpi di bambine come Valentine, orfana dodicenne, perché violare una vergine rende immortali. Lei ha perso la parola dopo i ripetuti stupri di gruppo, ha la gonna fradicia di urina per una fistola mai curata: la sorella maggiore vuole nascondere la tragedia agli altri sfollati nel campo di Buhimba, poco lontano da Goma, dicendo a tutti che il sorriso vuoto della bimba non è che una pazzia senza nome. A Bukavu Janette Mapengo, 31 anni, mi si avvicina zoppicando. Gli otto hutu che l’hanno violentata nella sua capanna costringevano il marito a guardare, per poi seccarlo con una pallottola in fronte ed esplodere su Janette altri tre colpi, appena lei ha osato urlare.

Alza la gonna scolorita mostrando l’arto di plastica: all’ospedale Panzi le è stata amputata la gamba destra maciullata dagli spari. Janette piange piano: «Sono inutile». Françoise Mukeina ha 43 anni, undici figli, occhi color miele: «Cento hutu ci hanno prese in otto dal villaggio, a Shabunda, tenendoci schiave nella foresta per due anni, nutrite con gli avanzi, violentate a turno ogni giorno, marchiate col fuoco. Quando mi hanno mandato a fare legna sono fuggita. Ho dolori che non finiscono mai ma ringrazio Dio: io sono viva, le altre no». Solo nel Sud Kivu, da gennaio a settembre 2008, l’agenzia dell’Onu Unfpa ha censito 11.600 donne che hanno chiesto cure dopo la violenza carnale: per il 95 per cento di loro, gli autori erano miliziani. Nel Nord Kivu si stimano 30 mila vittime di stupro dal 98, ma quelle che tacciono per vergogna sarebbero molte di più.

«È un femminicidio: gli stupri aumentano, sembrano contagiosi» esplode Fanny Mukendi di Action Aid, organizzazione internazionale che tra Bukavu e Goma finanzia i gruppi locali più attivi nel ricomporre i brandelli di esistenza di queste donne. «Sono povere, sfollate dopo gli attacchi dei ribelli: la violenza è il colpo di grazia. Hanno bisogno di un sostegno psicologico e di entrate economiche: con noi fabbricano sapone, panieri, preparano dolci da vendere al mercato. Nulla di spettacolare, ma le aiuta ad accettarsi di nuovo». A Goma, Action Aid ha fondato un movimento femminile che a novembre, durante l’assedio di Nkunda, ha riempito lo stadio al grido “stop aux viols”. E per Fanny, «ogni donna del mondo dovrebbe essere solidale con loro». Pensava soprattutto all’est del Congo, l’Onu, quando l’anno scorso si è decisa a inserire lo stupro di guerra tra i crimini contro l’umanità, perseguibile dai tribunali internazionali.

Ma per ora, qui, domina l’impunità: «Con i militari si può solo segnalare l’esercito di appartenenza» spiega Julienne Mushagaluja, avvocatessa del gruppo Afejuco a Bukavu, che raccoglie testimonianze di vittime in vista di un appuntamento importante: «Sta per arrivare un inviato della Corte dell’Aja» rivela. «Dovrà capire se esistono prove sufficienti a denunciare per stupro i signori della guerra». Delle 58 condanne eseguite a Bukavu nel 2008 (su 353 denunce), solo 9 riguardavano militari, ma rispondevano anche di altri delitti. «Se a soffrire fossero gli uomini e non le donne» dice sommesso il dottor Mukwege «la comunità internazionale avrebbe già trovato una soluzione». Nel campo di Buhimba, durante il consueto acquazzone pomeridiano, siedo in una capanna buia sopra la terra nera del vulcano Nyiragongo, con un gruppo di donne e i loro neonati. I figli della violenza. In Congo l’aborto è illegale, per quello clandestino ci vogliono soldi, e non è il caso di Dativa Twisenge, 22 anni, scheletrica, bella, che disprezza il suo piccolo Oliver: «Che me ne faccio? Voglio solo morire. Due stupri sono troppi» mi gela. «Due anni fa in casa mia, a Masisi, con mia madre: a lei hanno spezzato le gambe. L’anno scorso qui vicino: tre militari del governo mi montavano come una cagna e intanto mi bastonavano la schiena: non ho fatto che urlare “uccidetemi!”». Agnès è un raggio di luce: 33 anni, sei figli, l’ultimo nato dallo stupro. Rapita vicino al campo con altre nove, legata e bendata dall’alba al tramonto, gettata tra i banani come spazzatura. Non riesco a non chiederle cosa prova per questo neonato paffuto, che per sempre le ricorderà la tortura. Lei sgrana gli occhi allungati: «Devi capire, è il mio bambino. L’ho chiamato Chance affinché, almeno lui, abbia la fortuna di conoscere un mondo migliore».

Emanuela Zuccalà

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