Corriere Economia Personaggi 29 gennaio 2007 I cinesi ormai ci assomigliano – Nei guai Distretti in evoluzione/1 In Toscana, il caotico e gracile capitalismo giallo si va irrobustendo: le aziende del pronto moda sono ormai al 50% società di capitale Nei guai Stessi problemi: a Prato un imprenditore su 4 teme che il figlio non voglia prendere il suo posto
50% sono le imprese cinesi che riversano la totalità delle commesse sui fornitori di Prato: un segnale di integrazione
20 mila euro: è la cifra con cui i cinesi avviano le loro imprese – Soldi raccolti in seno alla comunità fra amici e parenti
Anche i loro figli non hanno tutta questa voglia di spaccarsi le mani e di consumarsi gli occhi. Nel distretto del tessile di Prato gli imprenditori cinesi, comunità in crescita tumultuosa attorniata da un alone di mistero, hanno lo stesso problema dei loro colleghi italiani: la successione.
A bucarne per la prima volta l’impenetrabile riservatezza, è una ricerca che sta effettuando l’Osservatorio regionale toscano sull’artigianato, di cui Corriere Economia è in grado di anticipare alcuni risultati.
«Hanno le loro idee - dice Xu Qiu Lin, titolare della Giupel, una delle punte più avanzate della faticosa modernizzazione dell’impresa cinese -. Vanno a scuola. È bene che frequentino l’università. È chiaro che potrebbero scegliere di fare altro».
Per il signor Giulini, soprannome con cui tutti conoscono a Prato l’imprenditore quarantaduenne, il problema non si pone ancora. Suo figlio Xu, detto Marco, va alle medie. Ma, per altri, sì. E, anche se non è dietro l’angolo, fra qualche anno si porrà.
«Abbiamo intervistato una cinquantina di imprenditori - afferma Lorenzo Zanni, docente di Economia e gestione delle imprese all’Università di Siena e coordinatore scientifico della ricerca -. Hanno accettato di parlare grazie alla mediazione di una interprete cinese. Uno su quattro ammette che esiste il nodo della successione. Una questione non trascurabile, in piccole imprese così fortemente integrate con la famiglia del fondatore».
Somiglianze crescenti
Con tutte le diversità e le differenze profonde, loro sono quindi come noi. Ed è anche su queste somiglianze che, con mille asperità e ruvidezze, incominciano a integrarsi due mondi finora del tutto separati.
«Ormai - rivela Zanni - oltre la metà delle aziende cinesi riversa la totalità delle proprie commesse su fornitori di Prato». Oggi le imprese cinesi sono circa 2.400. Nel 1996 se ne contavano 300 e nel 1992 erano 200. Hanno contribuito a tenere in piedi il distretto pratese, la cui attività basata al 75% sul tessile e al 25% sull’abbigliamento ha sperimentato una crisi profonda.
Lo hanno fatto puntando sul pronto moda. Niente a che vedere con la pianificazione delle imprese che lavorano per le collezioni primavera-estate e autunno-inverno. Invece, prodotti in rapida velocità, per accontentare un mercato onnivoro e gusti degli acquirenti ondivaghi. Per stare su questo versante scosceso del mercato, bisogna avere strutture leggere e flessibili. Che, però, hanno un costo sociale pesante. Prima di tutto in termini di nero.
«Questo - afferma Enrico Mongatti, responsabile dell’ufficio studi dell’Unione industriali di Prato - si riflette sulla composizione sociale della comunità cinese». Di regolari e residenti, ce ne sono 10.000.
Alcune stime ne accreditano fino a 30.000. Secondo questo calcolo ultraestensivo, quindi, fra regolari non residenti e irregolari, sarebbero 20.000 i cinesi, in buona parte impegnati nell’industria. «Per impiantare queste aziende - osserva Zanni - gli imprenditori ricorrono a forme di autofinanziamento.
Di solito, per iniziare, si fanno prestare da amici e da parenti una piccola somma, di solito 20 mila euro. La realtà è caotica. Ma queste prime forme di consolidamento, sotto il profilo culturale, sono molto interessanti».
I cinesi di Prato, infatti, non provengono da aree della Cina segnate da culture commerciali originate dal confucianesimo. Una parte, infatti, arriva dalla Manciuria: una zona rurale, terra di contadini semi-analfabeti. La maggioranza, invece, proviene dalla provincia di Zhejiang, in particolare dal capoluogo di Hangzhou dove si trovano anche aziende di stato specializzate nel tessile. Il magma di Prato resta comunque vitale e contraddittorio, con una vita media delle società compresa fra i tre e i quattro anni.
Molte chiudono. Alcune si fondono. Altre ancora cambiano ragione sociale e nome, con una tattica che spesso rappresenta un tentativo per sfuggire a controlli su fiscalità, previdenza e sicurezza sul lavoro.
Ma, da brodo primigenio, il capitalismo giallo assume gradualmente una fisionomia meno sfuggente e più definita: secondo l’analisi dell’Osservatorio regionale, la metà sono società di capitale.
I primi oltre il nanismo
Microimprese. Ma non solo. Nel vischioso sovrapporsi di fenomeni noti e di incomunicabilità cinese, emergono società che, almeno in termini di fatturato, superano il nanismo.
La Giupel, per esempio, dopo sette anni di attività ha un fatturato che sfiora i 10 milioni di euro, grazie a una strategia di marchio che punta astutamente sui crismi della toscanità più popolare: ha lanciato la linea Batistuta. E l’integrazione con il tessuto produttivo pratese, peraltro da anni messo nell’angolo dalla concorrenza internazionale, diventa la chiave per le imprese che, come questa, vogliano compiere un minimo salto dimensionale.
Da poche unità, a qualche decina di addetti: nel caso della Giupel se ne contano 25, di cui 15 italiani. La produzione viene affidata quasi tutta a terzisti cinesi, mentre le pelli e i tessuti sono acquisite da grossisti italiani che operano fra Prato e Napoli. Nelle funzioni aziendali più sofisticate e esposte al mercato, ci sono gli italiani.
«Nella nostra azienda - dice Xu Qiu Lin-Giulini - gli italiani seguono lo stile e il settore commerciale.
I cinesi fanno il magazzino e la piccola produzione».
Per le aziende che superano la semplice dimensione da terziste e puntano sul pronto-modo «un filo» più evoluto, il rapporto con la subfornitura italiana diventa fondamentale. È il caso di Koralline, società specializzata in abbigliamento femminile con sei addetti fondata dal venticinquenne Xiaomeng Zhan, conosciuto a Prato come Francesco Zan, che al primo anno di attività dichiara ricavi per 4 milioni di euro. In ditta sono impegnate solo sei persone.
Tutto il resto è dato fuori.
Per una volta, a ordinare commesse ai terzisti è un imprenditore cinese. «I compiti più semplici - dice Zhan - continuiamo a affidarli ai cinesi. Però, la maggioranza dei lavori di fino, come i ricami e gli stampi, va necessariamente agli italiani, che hanno abilità insuperabili».
E, così, nei casi più avanzati di successo l’integrazione dei cinesi di Prato passa anche dal ribaltamento dei ruoli.
Paolo Bricco
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