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La mer, la fin...

giovedì 22 gennaio 2009

Mondo. La dittatura delle auto

Giorgio Bocca
Il potere alle macchine
L'auto che ci ha cambiato la vita ha il diritto di dominarla: ogni giorno c'è un massacro sulle strade e la nostra complicità con i delitti è totale, al massimo l'accusa è di omicidio colposo

Fra le macchine che dominano la nostra vita, l'automobile è la più potente: non solo ci uccide, ma ci dà licenza di uccidere.
Il giovane che ha fatto strage d'innocenti a Milano con la sua auto ha dichiarato tranquillamente: "Pioveva e la visibilità era minima, ho sterzato e sono piombato sul gruppo, che non avevo visto. Mi spiace per le vittime". Un giudice l'ha già mandato libero, l'omicidio colposo è un omicidio quasi normale nella società in cui l'automobile è la macchina sovrana, indispensabile, se si ferma la sua produzione non solo perdono il lavoro quelli che la fabbricano, ma si ferma anche l'indotto, il laborioso formicaio che partecipa alla produzione. Noi leggiamo sui giornali, seguiamo alla televisione le notizie del massacro quotidiano senza stupore e condanna. Se c'è un omicidio premeditato con l'aggravante dei futili motivi è proprio quello di chi è alla guida di quel proiettile vagante che è un'auto che corre ad alta velocità, magari ubriaco, magari assonnato. Certo però che sarà l'infernale, l'ingovernabile macchina a farlo perdonare e rimandarlo libero perché possa subito mettersi al volante di un'altra macchina omicida. Una volta entrati in questa alienazione non se ne esce più. La macchina che ha cambiato la tua vita ha il pieno diritto di dominarla. Tutto l'ordine sociale va sottomesso alla sua crescita, alla sua straripante moltiplicazione. La nostra complicità con i suoi delitti è totale: come può un giudice raziocinante mandare libero un giovanotto che ha fatto strage d'innocenti, accusandolo al massimo di omicidio colposo? Ma è chiaro, anche il giudice condivide il patriottismo automobilistico, anche lui sa benissimo che l'automobile è sacra, ha liberato l'umanità dalla fatica del camminare e dalla schiavitù delle distanze, gli ha regalato l'ubiquità, la sua enorme forza motrice, il poterti sentire solo dentro la folla, la libertà di decidere in una vita già decisa dagli altri.
Per ritrovare un minimo di coscienza sul nostro stato di dipendenza assoluta dalle macchine, possiamo contare su qualche black out energetico. Nulla di drammatico, intendiamoci, un piccolo avviso in portineria: causa lavori l'elettricità sarà interrotta dalle nove alle dodici. Ed eccovi alle nove in punto riportati di colpo non alla preistoria, non alla clave e alle pelli ferine, ma all'assoluta impotenza, a uno stato prenatale. Tutto spento, tutto immobile, la casa come una sorda prigione: nel buio non potete leggere, le macchine per scrivere e per calcolare sorde, inerti come pietre, freddi i termosifoni, muti i telefoni, inchiodate le saracinesche. Pazienza, tre ore passano in fretta, vi resta il letto per riposare. I black out passano, l'energia ritorna, il moto continuo riprende, ma quel panico da mancanza di energia, quel ritrovarvi incapaci di sopravvivenza, di autonomia, non vi abbandonerà presto, vi siete resi conto della fragilità estrema di questo modo di vivere protetti dalle macchine, sostituiti dalle macchine, complici delle macchine. E ogni tanto gli annunci di catastrofi totali irreparabili, città come New Orleans coperte dalle acque, mutamenti climatici catastrofici con un'umanità che non sa più fare manualmente le cose più semplici. Ogni giorno a Milano c'è un incidente tramviario, il più sicuro dei mezzi di pubblico trasporto su rotaie si rompe, esce dai binari, investe qualcosa. Che sia già iniziata la rivolta delle macchine?
(16 gennaio 2009 l'Espresso)

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