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RUMOR DI SCIABOLE
Sull’impiego dei “militari nelle città” c’è un “adagio” che più o meno fa così: “ I soldati una volta usciti dalle caserme, difficilmente vi rientrano”…
Pertanto la decisione del Ministro della Difesa, Ignazio La Russa assecondata dal Governo, di ricorrere alle Forze Armate, anche se in misura per ora ridotta, per fronteggiare le emergenze rifiuti e sicurezza è un primo passo, anche se timido, verso la “militarizzazione” della società italiana.
Su un punto però vorremmo invitare i lettori a riflettere. La scelta non ci sembra legata, o almeno non soltanto, al Dna militarista dell’attuale Ministro delle Difesa e del Governo, ma a tre fattori strutturali.
In primo luogo, alla presente situazione internazionale di guerra, asimmetrica quanto si vuole ma guerra, che vede coinvolta l’Italia. E, di regola, le situazioni in cui il ruolo dei militari rischia di diventare fondamentale, ne determinano il conseguente accrescimento di influenza e potere all’interno delle società di riferimento. Di riflesso una società occidentale, dunque inclusa anche quella italiana, che punti sulla guerra “globale al terrorismo”, non può non favorire l’ ascesa “globale” al potere dei militari, come gruppo sociale, caratterizzato da istituzioni rivolte di norma ( o comunque in ultima istanza) alla repressione armata di ogni forma di conflitto.
In secondo luogo, nelle situazione di guerra più o meno aperta, come quella in atto sul piano mondiale, si determina una polarizzazione del potere politico: in nome di una migliore gestione della situazione bellica le élite dirigenti civili impongono una centralizzazione di tutti i poteri. Ovviamente nell’interesse “supremo della nazione” o, come avviene oggi, "dell'Occidente". E all’interno di questo processo, di regola, i dirigenti militari finiscono gradualmente per sostituirsi a quelli civili, prima perché ritenuti “professionalmente” più adatti ad affrontare la situazione di “emergenza” bellica, e dopo perché divenuti insostituibili: siamo davanti al classico caso del potere che genere un altro potere, che a sua volta e nel tempo, tende a diventare predominante sul primo per ragioni funzionali, ovviamente nei limiti dei risultati positivi conseguiti. Inoltre la centralizzazione può divenire tanto più assoluta quanto più alla situazione di guerra esterna se ne affianchi una di guerra interna (ad esempio, come nel caso italiano, di “guerra” alla mafia, alla camorra, eccetera).
In terzo luogo, la graduale militarizzazione della società porta con sé la rivalorizzazione di un’etica di tipo militare fondata su valori come la gerarchia, l’obbedienza assoluta, il coraggio, l’onore. E soprattutto i primi due valori (gerarchia e obbedienza) non sono sicuramente in sintonia con quelli democratici. Di qui il pericolo di un mutamento valoriale, a danno della democrazia.
Di regola il mix tra istituzionalizzazione in ogni ambito della repressione armata, centralizzazione politica ed etica militare rafforza il potere dei militari e rende difficilissimo, come si diceva all’inizio, far “rientrare" l'esercito nelle caserme.
Naturalmente, ogni società, reagisce allo schema sociologico qui illustrato, secondo il peso delle proprie tradizioni storiche e socioculturali. Quanto più una società è democratica e pluralista (nel senso di una maggiore ricchezza sociale di istituzioni civili e contropoteri), tanto più il processo di militarizzazione può essere rallentato, perfino “bloccato”, o comunque tenuto sotto controllo.
Tuttavia, e concludiamo, per chi crede nelle democrazia (come mezzo di risoluzione pacifica dei conflitti) e nel pluralismo sociale (che implica che i militari se ne stiano nelle caserme) questo “rumor di sciabole” non promette nulla buono.
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