TANTI INTERESSI PRIVATI NON FANNO UNA CITTA'!

La mer, la fin...

martedì 30 settembre 2008

Alimentazione/economia. La civiltà della carne.

Una mucca salverà la terra!

(di Jeremy Rifkin)


La produzione di carne è responsabile delle carestie e del cambiamento del clima. Ecco perché le popolazioni più ricche dovrebbero cambiare dieta
L’impressionante aumento dei prezzi energetici dello scorso anno ha determinato un aumento altrettanto impressionante dei prezzi dei generi alimentari in tutto il mondo. La crisi è stata esacerbata dalle ripercussioni ‘in tempo reale’ che il cambiamento del clima sta avendo sull’agricoltura, in primis siccità, alluvioni e altri cataclismi climatici che hanno pesantemente inciso sulla produzione degli alimenti di base in molte aree del mondo. Le proteste di piazza ormai dilagano in oltre 30 Paesi e i leader politici paventano che gli ulteriori aumenti dei prezzi dei generi alimentari e l’escalation della rabbia e della disperazione dell’opinione pubblica possano esautorare i governi di buona parte del mondo in via di sviluppo e condurre a preoccupanti quanto difficili conseguenze per l’umanità. Inopinatamente, la crisi alimentare è stata trasformata da sfida umanitaria in una questione di sicurezza planetaria. Nelle scorse settimane sono stati organizzati in tutta fretta vari vertici internazionali sulla crisi alimentare globale per analizzare in particolare il rapporto di causa-effetto tra l’aumento dei prezzi energetici, l’impennata dei generi alimentari e le ripercussioni del cambiamento del clima sulla produzione agricola.
Al vertice della Fao di giugno si sono dati appuntamento oltre quattromila rappresentanti di oltre 180 paesi, tra i quali capi di Stato, uomini d’affari, esponenti delle più importanti organizzazioni della società civile, con l’intento di discutere della crisi alimentare, del cambiamento del clima e dei problemi energetici. Alla fine della conferenza, tuttavia, nemmeno uno tra i rappresentanti politici ha detto alcunché sulle cause sottaciute della crisi e su come le politiche agricole abbiano un impatto profondo sul cambiamento del clima.
Ciò che tutti hanno sotto gli occhi e nessuno pare essere disposto ad ammettere e tanto meno a segnalare all’attenzione altrui è una mucca. L’industria mondiale delle carni si è divorata fino al 40 per cento delle terre coltivabili del pianeta e ha trangugiato ingenti quantità di riserve di carburanti fossili affinché un’esigua percentuale della popolazione terrestre possa banchettare con gli alimenti più in alto nella catena alimentare globale mentre centinaia di milioni di altri esseri umani si trovano a dover far fronte a malnutrizione, carestia e morte.
Mentre il prezzo del petrolio continua a salire - ci stiamo avviando ormai al picco della produzione globale di greggio - il baratro tra ricchi ipernutriti e poveri sottonutriti non potrà che allargarsi a sua volta, portando, senza mezzi termini, a un mondo di ingordi assediati da popoli nella morsa della carestia. Ad acuire ancor più il problema è il fatto che la produzione della carne è la seconda più importante causa del cambiamento del clima e neanche Al Gore ne parla. L’umanità non sopravviverà se i più ricchi del pianeta non attueranno una drastica inversione di rotta nella loro alimentazione. Questa è la realtà.
Tanto per cominciare, lo strabiliante aumento del prezzo del petrolio sui mercati internazionali ha avuto l’anno scorso un ruolo eloquente nell’escalation dei prezzi dei cereali. L’agricoltura moderna dipende in ogni sua fase di produzione dei generi alimentari dal petrolio e dai derivati dei combustibili fossili. Nei fertilizzanti, nei pesticidi, negli imballaggi si usano sostanze petrolchimiche, e per far funzionare i macchinari agricoli e trasportare i prodotti in mercati anche molto lontani serve naturalmente la benzina. Il risultato è che l’impennata dei prezzi dei carburanti ha inciso assai sulla coltivazione dei cereali in tutto il mondo: in media negli ultimi 12 mesi i prezzi sono aumentati del 54 per cento. Quelli dei cereali, in particolare, in quello stesso arco di tempo sono saliti del 92 per cento; il riso e il grano costano il doppio rispetto all’anno scorso.
Per i 2,7 miliardi di persone che guadagnano meno di due dollari al giorno aumenti di questa portata fanno vacillare gli equilibri: per loro scatta l’instabilità che li spinge dalla sopravvivenza alla fame fino addirittura alla morte. Jacques Diouf, direttore generale della Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, afferma che attualmente sono circa 862 milioni gli esseri umani privi di adeguato accesso al cibo.
Molti esperti imputano l’aumento dei prezzi degli alimenti alla conversione dei terreni agricoli, passati a produrre biocarburanti. L’idea di fondo di questa teoria è che aumentando le terre coltivabili destinate ai biocarburanti si faccia decollare il costo dei cereali destinati all’uomo. In altre parole, la questione si riassume in un interrogativo: è meglio alimentare le automobili o sfamare gli esseri umani?
Mentre i biocarburanti rivestono un ruolo indiscusso nell’aumento dei prezzi dei generi alimentari, e potrebbero tuttora continuare a farlo salire, il loro impatto di fatto è ancora marginale: nel 2007 meno del 3,5 per cento dell’intera produzione alimentare mondiale è stata convertita alla produzione di biocarburanti.
Tutto ciò ci conduce di conseguenza al nocciolo della questione, rimasta per ora in secondo piano e senza soluzione. Il problema infatti non si riduce a un insolito dilemma - alimentare le automobili o sfamare gli esseri umani - né semplicemente nell’aumentare a breve termine la produzione di petrolio. Il vero problema, nel momento in cui il prezzo del petrolio continua a salire innescando aumenti dei generi alimentari negli anni a venire, è capire se dovremmo usare i cereali per nutrire le bestie o per sfamare gli uomini. Ed è proprio questo ciò di cui nessun leader pare preparato a parlare.
La Fao delle Nazioni Unite ha affrontato questo tema in uno studio pubblicato nel 2006 e intitolato ‘Livestock’s Long Shadow: Environmental Issues and Options’. Da tale rapporto risulta che nel solo 2002 sono diventati mangimi per il bestiame 670 milioni di tonnellate di cereali, pari più o meno a un terzo della produzione globale di cereali.
Il punto è che sempre più terra coltivabile del pianeta è adibita alla coltivazione di mangimi per gli animali, il che significa che di conseguenza sempre meno terra è riservata alla produzione di cereali per l’alimentazione umana e tutto ciò influisce negativamente sul prezzo degli alimenti accessibili ai più poveri del pianeta. A peggiorare le cose, la Fao ha stimato che la produzione di carne raddoppierà entro il 2030, a discapito dei terreni coltivabili che in futuro produrranno mangimi per animali in percentuale sempre crescente.
Ma la crisi nata dalla contrapposizione di cereali per l’alimentazione umana e mangimi per animali (’food versus feed’) non si ferma alle centinaia di milioni di persone affamate. Altrettanto importante, infatti, è il rapporto di causa-effetto tra mangimi, aumento della produzione di carne, consumi e riscaldamento globale, anche se a quanto pare nessuno al summit mondiale si è sentito di parlarne apertamente. In verità la carne (ottenuta da bovini cresciuti a mangimi) che portiamo in tavola è la seconda causa per importanza di riscaldamento globale dopo gli impianti di riscaldamento delle case. Rajendra Kumar Pachauri, presidente dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (che ha ricevuto il premio Nobel 2007 della Pace insieme ad Al Gore) ha invitato i consumatori di tutto il mondo a ridurre il loro consumo di carne, primo passo per affrontare il cambiamento del clima.
Da uno studio Fao delle Nazioni Unite pubblicato nel 2006 risulta che il bestiame produce il 18 per cento delle emissioni di gas serra, ovvero complessivamente più di tutti i mezzi di trasporto. Il bestiame, soprattutto i bovini, è responsabile del 9 per cento dell’anidride carbonica prodotta dalle attività umane, ed è responsabile altresì di una percentuale nettamente superiore di gas serra ancora più dannosi. Al bestiame si deve infatti il 65 per cento delle emissioni di protossido d’azoto rilasciato dalle attività umane: il protossido d’azoto ha un effetto sul riscaldamento terrestre pari a 300 volte quello dell’anidride carbonica. La maggior parte delle emissioni di protossido d’azoto è dovuta al letame. Inoltre il bestiame emette il 37 per cento di tutto il metano riconducibile alle attività umane, gas che rispetto all’anidride carbonica incide nella misura di 23 volte sul riscaldamento del pianeta.
Mentre deploriamo l’inefficienza energetica e lo spreco dovuto alla scelta di automobili che consumano molta benzina, l’inefficienza energetica e lo spreco legati allo spostamento verso un regime alimentare a base di carne è infinitamente peggiore. Si consideri infatti che un ettaro coltivato a cereali produce il quintuplo delle proteine di un ettaro utilizzato per la produzione di carne. I legumi producono dieci volte quelle proteine, e i vegetali a foglia 15 volte le proteine per ettaro di terreni di pari dimensioni destinato alla produzione di carne.
Per produrre mezzo chilo di carne cresciuta negli Stati Uniti a base di mangimi, l’industria del bestiame utilizza l’equivalente di quattro litri di benzina. Per sostenere le esigenze annuali in termini di consumo di carne di una famiglia media di quattro persone - più o meno 118 chili - sono necessari oltre mille litri di combustibile fossile. Allorché si brucia questa quantità di carburante, si rilasciano nell’atmosfera altre 2,5 tonnellate di anidride carbonica, quasi quanto un’automobile di media cilindrata rilascia in sei mesi di utilizzo normale.
Le implicazioni del rapporto della Fao sono palesi: è giunta l’ora di porre un drastico limite e fissare una soglia per le emissioni di metano e di protossido d’azoto nel settore agricolo, per incoraggiare l’industria dell’allevamento del bestiame a introdurre nuove modalità atte a tagliare le emissioni. Dovremmo altresì prendere in considerazione l’idea di approvare una tassa sui mangimi e sulle carni per incentivare una forte riduzione dei consumi, proprio come oggi si applica un prelievo fiscale sulla benzina per perseguire il medesimo scopo. Una tassa sui mangimi e le carni determinerebbe quasi sicuramente un ritorno alla produzione di cereali destinati all’alimentazione umana e affrancherebbe buona parte delle vaste terre agricole attualmente usate per produrre cereali destinati al bestiame e ad altri animali come mangimi.
Dovremmo altresì incoraggiare gli sforzi miranti a disincentivare le pratiche agricole che ricorrono a combustibili fossili e a prodotti chimici pesanti, ivi compresa la tecnologia di produzione degli Ogm, indirizzando di preferenza al ricorso a pratiche più biologiche e agro-ecologiche: a quel punto i costi legati alla coltivazione di cereali destinati all’alimentazione umana scenderebbero ulteriormente.
La nostra determinazione a ridurre sensibilmente lo spreco di energia e il nostro impatto sul riscaldamento globale, dovuto al riscaldamento degli edifici e all’alimentazione dei mezzi di trasporto, dovrebbe essere eguagliata dall’altrettanto aggressivo impegno a seguire lo stesso l’esempio nelle nostre pratiche agricole. In definitiva il passaggio dalla produzione di mangimi alla produzione di alimenti destinati all’uomo e il passaggio da un’agricoltura sostenuta da sostanze chimiche a un’agricoltura biologica sostenibile sono gli unici mezzi ai quali possiamo ricorrere a lungo termine per affrontare la duplice sfida della crisi alimentare globale e del cambiamento del clima. I consumatori ricchi e benestanti del mondo dovranno effettuare una scelta ponderata in fatto di regime alimentare, a beneficio dei loro consimili e del pianeta che tutti abitiamo. I governi dovranno fare altrettanto. Il tempo a disposizione si sta esaurendo.


*Jeremy Rifkinpresiede la Foundation on Economic Trends, Stati Uniti.

Ha scritto 17 libri, tra i quali ‘Ecocidio: ascesa e caduta della cultura della carne’

traduzionedi Anna Bissanti

Nessun commento: