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La mer, la fin...

mercoledì 10 settembre 2008

Crescita. Fine di un dogma?

(Quale) crescita e (quale) futuro: da Gentili a Lovins
di Diego Barsotti

Fonte http://www.greenreport.it/


«Crescita. Una sola parola può esprimere la scommessa per i prossimi mesi, sulla quale non dovrebbero esserci dubbi, o tanto meno, riserve politiche».
Nell’editoriale di domenica del Sole 24 ore Guidi Gentili ripropone ancora una volta come medicina quella che è stata la causa della malattia: «crescere per disegnare un futuro meno cupo di quello che può riservare l’azione congiunta e devastante dell’inflazione e della recessione». Forse è un problema nostro quello di non comprendere la portata rivoluzionaria e innovativa della strategia della crescita, che da sempre è considerato un dogma inamovibile. Eppure, facendosi scudo delle riflessioni emerse a Cernobbio al forum di Ambrosetti, Gentili ribadisce proprio questo concetto, ovvero che «la strada è obbligata in direzione della crescita» e che se «qualcuno si tirerà fuori» prima o poi dovrà spiegare «perché preferisce puntare sul passato anziché sul futuro». Archiviamo subito la speranza di una critica da parte di chi dovrebbe rappresentare l’opposizione, visto che di fronte alla platea di manager e imprenditori, Veltroni è andato a ribadire che è necessario «ridurre la tassazione, sostenere i consumi e far ripartire gli investimenti», ovvero la crescita, peraltro coerentemente con quanto professato in campagna elettorale. Per fortuna a Cernobbio è stato però invitato anche qualcuno abituato a viaggiare controcorrente come Amory Lovins, direttore del Rocky mountain institute e inventore del concetto di “capitalismo naturale”: ovvero nessun pregiudizio ambientalista o sociale, ma soltanto numeri e statistiche. Che gli hanno fatto spiegare, per esempio che «Delle materie prime che preleviamo dalla terra, il 93% va perso tra estrazione e processo di trasformazione. Il 7% diventa prodotto, ma di questo solo un settimo può essere considerato un bene durevole.
Di questa briciola viene riciclato solo il 2%. Uno spreco enorme, e un altrettanto enorme opportunità di business».
Lovins quindi non pensa alla decrescita, bensì a un modello più sostenibile di sviluppo, che oggi non viene orientato da nessuna governance né mondiale né locale ma è lasciato al mercato che pure «comincia ad ascoltarci – dice Lovins all’Espresso citando il miglioramento anno dopo anno dell’intensità energetica cioè il rapporto tra pil e quantità di energia utilizzata per produrlo - perché l’ecologia aguzza l’ingegno e crea profitto».
A proposito di Pil e di impossibilità di misurare con questo indice il benessere dei cittadini, anche se un po’ nascosto in una spalla di una pagina pari di Affari e Finanza, supplemento settimanale di Repubblica, merita davvero l’articolo di Giampaolo Fabris, professore ordinario di Sociologia dei consumi all´università San Raffaele, dove insegna anche Strategia e gestione della marca, intitolato “La crescita è finita. Iniziamo a vivere nell’era del post-consumismo”.
A proposito del dogma della crescita Fabris spiega che «come è successo alle grandi narrazioni che l’epoca della modernità ha elaborato, questo tabù credo che debba essere messo in discussione, perché i costi della crescita – costi davvero drammatici e ormai insostenibili – non possono essere più ignorati».
Fabris parte esattamente dallo stesso punto da cui era partito Gentili e arriva esattamente a dire l’opposto, ovvero che la crescita illimitata rappresenta il passato: la crisi e l’impennata dei prezzi del greggio che hanno avuto un effetto diapason su moltissimi beni e servizi sono «un segnale banale anche se costantemente sottovalutato». E cioè che «le risorse del pianeta sono comunque limitate e incompatibili con il principio, che è stato posto alla base del nostro modo di vivere, della crescita illimitata». «Ormai i livelli di consumo – conclude Fabris – hanno cessato di produrre soddisfazione e di contribuire a uno stato di benessere. Perseguire ossessivamente obiettivi di consumo al di là di certi limiti non crea alcun incremento marginale di soddisfazione, ma è una sorta di must per consentire una crescita economica considerata irrinunciabile.
Forse è davvero giunto il momento di aprire un dibattito intorno a questi temi, come invita a fare il sociologo, «di mettere in discussione l’imperativo della crescita economica, ponendo consapevolmente il tema della post-crescita: inteso non come regresso, ma come diversa via da percorrere per assicurare sostenibilità, maggiore perequazione nell’accesso alle risorse, rispetto dell’ambiente e soddisfazione individuale».

1 commento:

Anonimo ha detto...

La crescita economica dell'Italia, come quella degli altri (Gi) otto paesi ricchi è iniziate da delle solide basi: a partire dal 1492, gli Europei hanno rubato ricchezze e risorse umane, hanno fatto danni incalcolabili, prima all’America Latina con lo sterminio degli Indios, poi all’Africa con la tratta degli schiavi, infine un po’ dappertutto con il colonialismo.
Facile produrre e vendere in un mondo "a terra".
Seconda spinta verso la crescita: la pubblicità.
Che succede adesso? Le nazioni finora sfruttate cominciano ad organizzarsi per produrre e vendere, e la voglia di ridurre l'economia solo un mezzo per far soldi hanno a poco a poco ridotto l'Italia a un paese senza più strutture produttive e con le sue risorse territoriali non sfruttate (agricoltura e turismo).
Fino a quando funzionerà la pubblicità, staremo in questo equilibrio di crescita vicino allo zero, grazie alla posizione di rendita finanziaria che la storia ci ha consegnato (70% di terziario vuol dire che si lavora pochissimo per procurarci il cibo e per vestirci)e che ci permette di essere buoni consumatori.
La crescita è finita.
Simone Puggelli