MV
da il Tirreno del 21/04/09
«I cinesi sono una ricchezza. E vi spiego perché»
Ex allupino si è laureato con una tesi sulle politiche dell’immigrazione
A dirlo Giuseppe Testa, pensionato, allupino per 40 anni in una filatura, da poco laureato in Scienze Politiche presso il Polo Universitario di Prato, con una tesi in “Demografia e politiche dell’immigrazione”, Relatore il dottor Giambattista Salinari, dal titolo “Aspetti demografici del distretto pratese nel quadro dei processi di globalizzazione”.
Testa, originario del comune di Santi Cosma e Damiano in provincia di Latina, trasferitosi a Prato nel 1966, è proprio uno dei tanti immigrati del sud Italia che, fino agli anni ’70, hanno contribuito ad aumentare la popolazione pratese, andando a ricoprire mansioni nel settore tessile, in prevalenza come lavoratori dipendenti.
«La scelta di affrontare questo argomento - spiega Testa - è nata dalla convinzione che comunque noi meridionali siamo stati un elemento positivo per la città, la nostra presenza qui ha contribuito a far girare l’economia, ma il nostro scarso interesse per il rischio imprenditoriale e per il tessile ha fatto sì che perdessimo l’occasione di dare un concreto sostegno al distretto». Avvalorate da un accurato lavoro di ricerca su dati ISTAT e censimenti del comune, le affermazioni di Testa si basano sulla lettura e sull’interpretazione delle statistiche. L’interpretazione di una tabella che prende in considerazione il ruolo occupazionale ricoperto dai residenti nel comune di Montemurlo nel ventennio 1961-1981, rende chiara la teoria espressa da Testa: «Il dato è chiarissimo: circa il 35% degli emigrati dal sud - sottolinea - risultava artigiano e solo il 2,8% era industriale contro il 71% degli industriali originari di Prato. E’ più facile trovare immigrati meridionali a capo di aziende edilizie o negozi di sarti, barbieri e falegnami o nel pubblico impiego piuttosto che alla dirigenza di una tessitura».
Insomma le famiglie del sud che hanno scelto questa città per vivere e lavorare, portavano con sé un bagaglio di professionalità e di intenti assai diverso dai pratesi e diverso anche dal precedente flusso migratorio dei primi anni ’50, più identificabile in un pendolarismo dalle località limitrofe e quindi più incline a voler arricchire il distretto anziché sfruttarne unicamente le risorse per una tranquillità personale e familiare del tutto legittima.
Ma è il confronto con la nuova immigrazione cinese degli anni’80 che dà i risultati più interessanti, anche da un punto di vista sociologico: «L’etica del lavoro degli emigranti autoctoni degli anni ’50 - continua Testa - è molto simile a quella del popolo cinese che si è insediato a Prato dagli anni ottanta: poca scuola e molto lavoro, altissima occupazione giovanile, con l’ambizione di aumentare il numero delle aziende e ricoprire ruoli importanti». Competere ad armi pari con quella cultura ormai sarebbe impensabile per i pratesi, sia per i diritti conquistati in anni di lotte sindacali, sia per una vera e propria mancanza di ricambio generazionale, per cui i nipoti degli industriali e degli operai tessili oggi mettono l’istruzione nelle loro priorità, aspirando a un futuro in altri settori. Inoltre i cinesi hanno saputo ben sfruttare il materiale che hanno trovato qui, seppur inizialmente abbiano subito un vero e proprio sfruttamento da parte nostra: «Quando sono arrivati hanno rilevato centinaia di fabbriche inutilizzate - spiega Testa - pagando affitti esorbitanti e a nero ai proprietari pratesi, che ne hanno tratto enormi profitti. I cinesi hanno rivitalizzato un settore che a Prato stava quasi scomparendo e che oggi, in loro assenza, sarebbe demandato ad altre zone, cioè l’abbigliamento e maglieria, arrivando ad un fatturato che ricopre il 19% dell’economia locale». Un dato questo che trova conferma già osservando i censimenti relativi al 1987, anno di nascita della prima ditta tessile cinese, quando a Prato gli immigrati asiatici non arrivavano nemmeno a 30.
Da allora la crescita è stata esponenziale e oggi si contano circa 2700 ditte cinesi nella zona; numeri che fanno parlare di un vero e proprio “distretto-bonsai” all’interno del distretto, che preoccupa per la totale mancanza di regole, di rispetto dei diritti umani e per la tendenza a far rapidamente proprie tutte le fasi della produzione tessile. Qual è la via d’uscita quindi, alla luce della crisi attuale e delle esperienze passate, per trovare maggior trasparenza e trarre, dalla massiccia presenza cinese, una ricchezza e non un danno per il distretto? «Per avere maggior controllo e affidabilità - continua Testa - è necessario che si creino rapporti tra pratesi e cinesi, sempre in una logica di complementarietà. Questo sarà inattuabile fino a che non diminuirà il turn-over di chi arriva e poi se ne va dopo essersi arricchito. Adesso che i cinesi iniziano ad acquistare i capannoni, e non solo ad affittarli, c’è una prospettiva di maggior stabilità e quindi la conseguenza sarà minor clandestinità e minor sommerso. Naturalmente le aziende pratesi, dalla loro, dovranno continuare a puntare sull’alta qualità e sulla professionalità».
Martina Rafanelli
Nessun commento:
Posta un commento