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La mer, la fin...

domenica 12 aprile 2009

Riflessioni. Roba da "comunisti"

Karl Marx e Friedrich Engels definivano, nel 1846, il "comunismo" come "il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente." Una indicazione ben precisa, così come quella dello stesso Marx, nei suoi scritti "economici" più famosi (Salario, prezzo e profitto del 1865), sul "lavoro salariato": "Invece del motto conservatore, "Un giusto salario giornaliero per una giusta giornata lavorativa!" dovrebbero scrivere sulle loro bandiere la parola d'ordine rivoluzionaria: "Abolizione del sistema del lavoro salariato!"
E come non meravigliarsi, quindi, di fronte ad un Paolo Ferrero che si dice - ed è stato eletto - segretario di un partito che il comunismo ce l'ha nel nome, e che di fronte alla proposta decisamente "rivoluzionaria" (fatta, per inciso, da un altro esponente del suo partito) di ipotizzare, per affrontare la crisi strutturale del sistema industriale pratese, forme di incentivo e aiuto agli operai disoccupati, in mobilità, in cassa integrazione, per la creazione di cooperative di produzione, dice chiaramente che è meglio non imbarcarsi in questo genere di cose?
Forse, Ferrero era assente alla scuola di partito quando insegnavano gli elementi base della "dottrina" marxista, o forse ha letto un po' troppi marxisti e molto poco Marx, per non ricordarsi che uno degli obiettivi della società comunista è, appunto, la comunanza dei mezzi di produzione.
Di sicuro, gli è sfuggita la portata della proposta avanzata, più simile a quella che avevamo accennato qualche tempo fa parlando di Upton Sinclair - che negli anni della recessione, in California proponeva banalmente, e genialmente, di dare le fabbriche vuote ai disoccupati perché potessero produrre per i propri bisogni in primo luogo, e poi per reimmettere nel sistema economico il "surplus" - che all'utopistica eliminazione della "proprietà privata".
Senza voler calcare troppo la mano, quindi, sul "comunista" Ferrero che propone i blocchi stradali per garantire lo sfruttamento del lavoro salariato (nel mantenimento dell'attuale sistema industriale pratese), in una forma di colossale nemesi storica del movimento comunista, proviamo un attimo a riflettere su alcuni punti.
Anche a Prato ci sono disoccupati e persone che vivono di un sussidio che è destinato, prima o poi, a non essere più erogato - e progressivamente ad essere insostenibile per l'economia pubblica così come è configurata oggi. Anche a Prato esistono, oggi, capannoni e fabbriche in dismissione - che vengono affittate ad imprese cinesi o vengono "riconvertite" in pure speculazioni immobiliari.
E a Prato è una pia illusione pensare che, anche dopo aver salvato quello che rimane del tessile, il distretto possa ritornare ai bei tempi che furono della piena occupazione, tanto "piena" da diventare città di fortissima immigrazione proprio per garantire la produzione e riproduzione del sistema (i cinesi, oggi, vengono a fare altro...).
Che prospettive si pongono, quindi, proprio a quegli operai che vedono nero il loro futuro, e che con drammatica chiarezza sostengono che non c'è, oggi, alternativa al tessile? Brutalmente, nessuna! O meglio, nessuna finché continuiamo a pensare secondo le coordinate classiche pratesi - priorità del distretto tessile, priorità della produzione del semilavorato per la vendita e l'esportazione, etc. - e a poco servono i corsi per "assistenti alla persona" (in altri termini, badanti) che affollano la programmazione del principale ente formativo della Provincia.
E allora, vogliamo avanzare una proposta che, a questo punto, potrebbe sembrare da "comunisti" ante litteram (per quanto la nostra formazione risenta molto di più del pensiero di Proudhon e di Kropotkin), partendo da una banale considerazione: se quei cinquanta milioni di euro di ammortizzatori sociali erogati su Prato negli ultimi quattro/cinque anni (se non ricordiamo male i dati forniti dal segretario CGIL Marigolli), di cui venti milioni solo lo scorso anno, fossero stati investiti diversamente, oggi staremmo ancora a parlare di "crisi" del distretto? Purtroppo, col senno di poi sarebbe facile dire di no, ma qualche dubbio può venire.
E oggi che si chiede un impegno ancora più pesante (dieci milioni di euro sono serviti appena per le emergenze, e il sistema del credito alle imprese non potrà reggere all'infinito il peso del debito accumulato), è veramente follia pensare di utilizzare queste enormi risorse per permettere la ri-costruzione di cooperative di produzione e consumo su base locale - dalla filiera corta agricola alla filiera del recupero e riutilizzo delle "seconde materie prime" recuperabili dai rifiuti, passando per la soddisfazione dei bisogni essenziali dei cittadini? Non si tratta, qui, di "differenziare" (parola magica che si scontra con la crisi strutturale di un intero sistema economico mondiale), quanto di pensare nuove forme di economia che ripartano dal locale e, fondamentale, ecosostenibili. C'è chi farà il boscaiolo, c'è chi tornerà magari alla terra che nell'economia industriale era stata abbandonata. C'è chi continuerà a produrre per il tessile, magari trovando inediti accordi con il distretto del "pronto moda". Si tratta di dare spazio alle potenzialità non tanto del distretto, quanto delle persone.
Forse, in termini marxisti, si tratta di iniziare a pensare come "abolire" lo "stato di cose presente", e non di come prolungarlo "ad libitum" sperando, in fondo, che questo continui a produrre "lotta di classe". Volendo usare le parole di un altro rivoluzionario, "La vera rivoluzione dobbiamo cominciare a farla dentro di noi."

Kritias
per Municipio Verde


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