TANTI INTERESSI PRIVATI NON FANNO UNA CITTA'!

La mer, la fin...

giovedì 1 gennaio 2009

Verde urbano. 90.000 alberi per Abbado/ l'EXPO per la Moratti.

Abbado chiede alberi, Moratti risponde con l'Expo.
mv


Abbado: 90mila alberi e torno alla Scala
«Ritornerei solo per un cachet in natura»


MILANO —Un ragazzo col ciuffo, scuro e spettinato. Un capellone, si sarebbe detto in quegli anni, quando la zazzera incolta era il segno distintivo del modo di vivere e di pensare di chi voleva cambiare il mondo. E proprio mentre il mondo era tutto beat, in quel ‘68 fatidico, un trentenne milanese che amava i Beatles e Mahler, veniva incoronato direttore musicale dell’Orchestra della Scala. Aveva solo 35 anni Claudio Abbado. Un’età oggi impensabile per un simile incarico. Il podio più prestigioso del mondo era suo. Una nomina lampo, promossa dagli stessi professori d’Orchestra, che seguiva di poco il suo esordio al Piermarini, nel 1960. Le foto d’epoca ce lo rimandano con la bacchetta stretta tra le dita nervose, la lunga frangia ondeggiante sugli occhi, «dolce vita» nero alle prove, smoking di rigore alla sera. Il gesto elegante e preciso fin da allora. Uguale lo sguardo, riservato e ironico. Un giovane direttore, già con le stimmate carismatiche del grande interprete. Una stagione miracolosa la sua, lunga 18 anni, dal ’68 all’86. I tempi di «Claudio Abbado alla Scala», come dice il titolo del suggestivo volume (Edizioni del Teatro alla Scala, Rizzoli, pp.329, 60 euro) dove le curatrici, Angela Ida De Benedictis e Vincenzina C. Ottomano, ripercorrono con immagini e documenti, ricordi e testimonianze di artisti e amici (tra cui Roberto Benigni, complice di due Pierino e il lupo) quell’età dell’oro musicale rimasta incancellabile per chi ha avuto la fortuna di viverla.
E a lei Abbado, cos’è rimasto di quel periodo?
«La memoria di 18 anni intensi e curiosi - risponde il direttore, oggi 75enne -. Un periodo molto creativo per la Scala, ma anche per Milano, a quei tempi vera fucina di idee e di intelletti».
Il suo arrivo alla Scala coincise con il ’68. E anche lei mise in atto una sua rivoluzione: accostare passato e presente, classici e contemporanei, proporre musicisti inediti, dar spazio alla sinfonica... «Bruckner per esempio, non era mai stato eseguito, nè alla Scala nè in Italia. E anche Mahler. E Maderna, Donatoni, Boulez, Sciarrino... Le grandi prime di Luigi Nono e di Stockhausen. Il Festival Berg, il Festival Musorgskij. L’esperienza di "Musica del nostro tempo" con Pollini e Manzoni...»
Nomi difficili ieri, e oggi forse anche di più.
Come reagiva allora il pubblico, certo poco uso a quelle nuove sonorità sperimentali?
«In effetti non era sempre facile nè indolore. Anche parte della critica aveva da ridire. Fischi e contestazioni ce ne sono stati. Ma gli applausi via via crescevano. Via via il pubblico cambiava, più giovane, più "normale". La nascita della Filarmonica, l’esperienza di portare la musica nelle fabbriche, all’Ansaldo, alla Breda, alla Necchi, ha aperto a nuovi ascolti, ha smosso desideri di conoscere». Del resto, quando Luigi Nono varcò la soglia del Piermarini con la prima di Como una ola de fuerza y luz, il primo a esser stupito fu lui stesso.
In una lettera indirizzata ad Abbado scriveva nel suo idioma italo-veneziano: «Ti gavevi rasone: se pol smover tuto, perfin la Scala. OSTIA!! E la smoveremo insieme». Difatti. Il concetto di musica, di farla e di ascoltarla, stava cambiando a rotta di collo. Musica non più come evasione ma come impegno. Sociale, politico. Pollini che prima del concerto in Conservatorio legge una dichiarazione contro i bombardamenti Usa in Vietnam tra i fischi del pubblico. Abbado che cancella due repliche del Barbiere di Siviglia in segno di lutto per l’attentato di piazza Fontana.
E’ vero che alcuni critici vi chiamavano i NAP, acronimo di Nono Abbado Pollini, ma anche dei Nuclei Armati Proletari?
«Sciocchezze. E’ vero che tra noi c’è sempre stata una grande amicizia e una grande consonanza etica ed artistica. Per noi tutti, ad esempio, la cultura era un momento di scoperta collettiva. Per comodità alcuni mi avevano bollato come "comunista", ma io non sono mai stato in nessun partito. Naturalmente ho le mie opinioni, sostengo le cause che mi sembrano giuste».
Quei suoi anni alla Scala sono stati caratterizzati anche dalla presenza di grandi nomi della regia, da Strehler a Ronconi, da Ponnelle a Zeffirelli, da Ljubimov a Vitez...
«Vero, anche se alcuni di loro allora non erano così noti. Dodin ai tempi era quasi sconosciuto e anche Strehler era molto più famoso per la prosa che per la lirica».
Lunga la lista anche dei direttori ospiti in quel periodo, da Barenboim a Kleiber, da Bernstein a Karajan, da Maazel a Mehta, da Sawallisch a Solti...
«E Riccardo Muti. L’ho invitato io a dirigere il suo primo concerto alla Scala, nel ’70. Gli proposi anche di lavorare insieme. Certo, avevamo gusti diversi, ma avremmo potuto. Una direzione condivisa, perché no? Lui però preferì restare a Firenze, alla guida del Maggio Musicale ».
Alla Scala arriverà dopo. Nell’86, quando lei lasciò la direzione del Teatro. Allora si parlò di suoi dissapori con l’Orchestra. La stessa che costrinse poi Muti ad andarsene. E che di recente ha messo in forse la prima del «Don Carlo».
Un’Orchestra difficile?
«Non per quel che mi riguarda. Sono sempre andato molto d’accordo con l’Orchestra e con le maestranze scaligere. Le turbolenze esistono in tutte le formazioni del mondo. Però, quegli scioperi così sistematici sono un vizietto tutto italiano. Ci sono altri modi per ottenere le cose ».
Come vede la Scala di oggi?
«L’attuale sovrintendente Stéphane Lissner è molto bravo, sta facendo un buon lavoro. Immagino gli costi gran fatica vista la città. Milano di oggi non è certo un luogo dove si sostiene la cultura. E neanche il resto, date le condizioni di degrado ambientale in cui versa. Peccato, meriterebbe ben di più».
E’ per questo che lei non vuol tornare?
«Certo a Berlino l’aria è migliore...».
E’ la sua ultima parola? Cosa dovrebbero offrirle per farle cambiare idea?
«Un cachet fuori dall’ordinario. Novantamila alberi piantati a Milano. Un pagamento in natura. Se accadrà, sono pronto a tornare. A Milano, alla Scala».
Giuseppina Manin
30 dicembre 2008
I 90 mila alberi? Li pianteremo insieme
E in gennaio vertice in prefettura sui graffiti. «Non c'è pena, così continuano a imbrattare»

MILANO - «Aspetto il Maestro Abbado a Milano. Pianteremo alberi insieme». Il sindaco Letizia Moratti risponde al grande direttore d'orchestra che chiede, come condizione di un suo ritorno alla Scala, un cachet «in natura»: «Novantamila alberi a Milano».
«Abbiamo già — rilancia il sindaco — un piano per il verde e anche con il dossier per l'Expo siamo impegnati a realizzare grandi polmoni naturali. Ma se i cittadini ci daranno una mano, potremo anche accelerare i tempi di attuazione di questi progetti». In sintesi, si tratta di copiare l'esperienza di New York, dove l'istituzione mette un dollaro per ogni dollaro speso dai privati a favore dell'ambiente. «Chiedo ai milanesi — prosegue la Moratti — di organizzarsi nelle piazze, nelle vie, nei quartieri. Se daranno la loro disponibilità economica, il Comune farà altrettanto e questo ci consentirà di accelerare i tempi di un piano che già esiste».
Il piano, per intenderci, è quello che ha già regalato ventimila alberi a Milano e che ne ha promessi 25 mila per il prossimo anno. Intanto, il sindaco può sbandierare i dati di Legambiente, secondo i quali «la media di verde per abitante è 16 metri quadrati, il doppio della altre città italiane». Questo per dire che la città non è solo fatta di cemento, «anche se — ammette il sindaco — probabilmente abbiamo molti giardini condominiali o aiuole che non rendono l'idea di queste cifre». C'è poi il progetto per Expo. «La metà dei 110 mila ettari di terreno su cui sorgerà il progetto Expo dovranno essere destinati a verde. Realizzeremo — prosegue il sindaco — il più grande parco urbano del Nord Ovest, che sarà accessibile dalle due vie di acqua e di terra, lunghe ciascuna 22 chilometri». E, come ricorda sempre la Moratti, «quello che è scritto nel dossier, approvato dai commissari del Bureau, dovrà essere realizzato».
Di certo, il sindaco concorda con Abbado, «che ringrazio per la provocazione costruttiva », sulla necessità di «fare sempre più bella Milano ». Cominciando a coinvolgere gli studenti di 200 scuole elementari e di 200 medie: «Vogliamo sensibilizzare i nostri ragazzi sul senso estetico per un'educazione al bello, all'ordine, al pulito». E si arriva inevitabilmente a parlare di graffiti: «Il 14 gennaio faremo un vertice in prefettura — annuncia il sindaco — perché in questi mesi i vigili del Comune hanno fermato 33 writers colti in flagranza di reato. Ma nessuno ha dato seguito a questo fermo con provvedimenti effettivamente repressivi». Il tema è quello di «garantire un collegamento stretto fra le azioni di tutti» facendo in modo che «ciascuno si prenda le proprie responsabilità». Il resto è la chiamata in causa dei cittadini: «Se non capiamo — conclude la Moratti — che tutti dobbiamo collaborare a tenere pulita la città, continueremo a spendere decine di milioni di euro che altrimenti potremmo usare per i servizi sociali, per gli aiuti alle famiglie bisognose, per affrontare la crisi economica».
Elisabetta Soglio
31 dicembre 2008
(tutto da Corriere della Sera.it)

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